#55 💰📱💣 Fin vs. Tech: la guerra dei mangoddi
Apple, Klarna e la fragile posizione di Bengodi delle banche
Ciao a tutti,
Il numero di questa settimana lo dedichiamo alle banche. Un argomento piuttosto scontato per una newsletter che parla di soldi, vero? Cercherò di farlo, però, unendo i puntini sparsi in vari ambiti dell’ecosistema finanziario e digitale che ci gira attorno.
La carta di Apple
Vi ricordate di Apple che si è avventurata nel settore della raccolta del risparmio (conti di deposito Apple Save), nel settore dei pagamenti (Apple Card) e in quello del credito (Apple Pay Later)? Su questa newsletter ne abbiamo parlato spesso. Per la maggior parte di queste iniziative, Apple faceva semplicemente da fronting verso il cliente grazie al suo brand e alla sua capacità di fidelizzarlo e trattenerlo attraverso il suo ecosistema di servizi, con altre istituzioni finanziarie che invece offrivano l’infrastruttura finanziaria (licenze e bilancio fondamentalmente). Ad aprile scorso, commentavo così l’iniziativa di Apple Save, in cui Apple raccoglieva depositi remunerati al 4% veicolandoli di fatto sul bilancio di Goldman Sachs:
Apple potrebbe semplicemente fare le prove generali prima di diventare veramente una banca.
Nello stesso mese suggerivo che Apple avrebbe potuto acquistare Marcus, la business unit consumer di Goldman Sachs, che se la passava piuttosto male. Goldman si è lamentata di aver subito solo nel 2022 oltre un miliardo di perdite derivanti dalla partnership con Apple (perdite su crediti e costi operativi esorbitanti).
Infatti, è arrivata la settimana scorsa la notizia che Apple ha intenzione di interrompere la partnership con Goldman Sachs per il servizio Apple Card.
E ora? Credo si possa considerare la partnership tra Goldman e Apple come un preziosissimo tirocinio con cui Apple ha imparato – a spese di Goldman peraltro – come si gestiscono prodotti finanziari dedicati al mondo consumer. Adesso è arrivato il momento di fare sul serio e fare da soli. Non credo proprio che Apple cerchi un altro partner. Già con il prodotto Apple Pay Later, d’altronde, Apple aveva cominciato a fare a meno di Goldman utilizzando Goldman solo per i pagamenti, ma tenendo i crediti derivanti dalle stesse nel bilancio della controllata Apple Financing LLC.
Fossi nelle banche, non starei così tranquillo… Oggi Apple vale da sola 1.6x volte la somma della capitalizzazione delle prime 10 banche mondiali e ha in cassa abbastanza liquidità per potersi comprare tutta Goldman (o Wells Fargo, o HSBC, o Morgan Stanley).
L’ABC in banca
Ma non c’è solo Apple a minacciare le banche. Lasciando perdere per un momento tutto il mondo fintech – un mondo molto eterogeneo dove alti e bassi si susseguono a seconda delle mode – ci sono altri pesi massimi che vogliono mangiarsi la torta delle banche. La scorsa settimana è uscita la notizia che Alphabet (la parent company di Google) sta discutendo un possibile investimento di 300-500 milioni di sterline in Monzo, una challenger bank inglese con 8 milioni di utenti a una valutazione di 4 miliardi di sterline (un po’ più di Monte dei Paschi). Fino a due anni fa Monzo era messa male un po’ come tutte le challenger bank: costi di acquisizione dei clienti esorbitanti (spese di marketing e regalie varie per chi apre un nuovo conto) senza poter estrarre dai clienti molto valore. Si tratta nella maggior parte dei casi di clienti con depositi medi molto bassi che usano Monzo come mezzo di pagamento. Poi i tassi sono saliti da 0% a 4% e i margini di interesse ci hanno messo una toppa con il net operating income passato da 114 a 214 milioni di sterline a fronte di un totale attivo passato da 5,2 a 6,7 miliardi di sterline. La maggior parte dell’attivo di Monzo è investito presso la Bank of England o in titoli di Stato inglesi, mentre una piccola parte – 653 milioni di sterline – è investito in impieghi con i clienti. Questi impieghi hanno prodotto nel 2023 perdite su crediti per 101 milioni di sterline: in pratica per ogni cento sterline prestate alla clientela, Monzo ne perde 16, un costo del rischio mostruoso e insostenibile.
Ma tanto ora arriva Google…
E poi c’è quel matto di Elon Musk. Non è un mistero che dietro l’acquisizione di Twitter ci fosse la volontà di sviluppare una sorta di Super App da cui fare tutto. E non è meno famosa la determinazione e la capacità di execution di Elon Musk, che, disponendo di risorse finanziarie cospicue, può rendere qualsiasi obiettivo, per quanto ambizioso, alla sua portata. Quello che ha sorpreso tutti, però, è la dichiarazione di voler fare di X un prodotto in grado di sostituire in pieno le banche entro il 2024. Sì, entro il 2024. Lo spazio è piuttosto affollato, vedremo.
Il buy now pay later comincia a pagare
Tornando invece al mondo del fintech, c’è il modello del Buy now pay later che dopo aver passato la prima infanzia e le sfide di una pubertà difficile, sta entrando nel periodo adolescenziale con ottimi presupposti. Nell’estate del 2022, spaventati da tassi in rapida salita, inflazione e guerra in Ucraina, tutti si erano affrettati a dichiarare la morte di un modello di business che sembrava reggersi solo sui soldi dei fondi di VC e i tassi bassi. In un numero di Segui Mangoddi intitolato “Scomode Rate” io scrivevo:
Ora è abbastanza facile pontificare sull’insostenibile leggerezza del modello di business su cui si basa il BNPL, con l’aria del menagramo che la sa lunga e con un pizzico di schadenfreude.
Non sarei così veloce, però, a seppellire questo modello di business…
Il grosso della perdita di Klarna non viene da dove tutti i puntano il dito (costo del rischio di credito e funding), ma dall’area in cui le startup sono meno disciplinate, anche quando diventano grandi, cioè i costi. Business model come quelli di Uber, Deliveroo e simili hanno prosperato con economics molto peggiori.
La risposta di Klarna è stata abbastanza sensata: freno all’underwriting e contenimento dei costi.
Ciò detto, analizzare la redditività di Klarna con gli stessi criteri con cui si esaminano i conti di una banca o di una finanziaria di credito al consumo, potrebbe essere molto riduttivo e impedirci di vedere la luna.
E indovinate un po’ cosa è successo? Nel giro di un anno Klarna è passata da un margine operativo netto negativo (-30% sui ricavi) a un bel 7%. Al turnaround hanno contribuito principalmente le minori perdite su crediti (Klarna sostiene non solo di essere meno allegra nel concedere il credito, ma di aver migliorato anche le sue politiche grazie a sistemi di machine learning).
Il bello è che a fronte di maglie più strette per la concessione del credito e un significativo taglio dei costi, i volumi hanno continuato a crescere del 35% anno su anno nel terzo trimestre del 2023. Questo perché il mercato è talmente grande e la penetrazione del BNPL ancora bassa che c’è tantissimo spazio di crescita.
Klarna è stata particolarmente abile e oggi gira voce che stia puntando a una quotazione con una valutazione di 15 miliardi di dollari. Non sarà un risultato fantastico per Softbank che nel 2021 aveva investito a una valutazione di 48 miliardi di dollari, ma per Mubadala e gli altri investitori, che solo un anno fa avevano sottoscritto un aumento di capitale di Klarna a una valutazione di 5 miliardi di dollari, dev’essere un gran risultato (parliamo comunque di 1.7x la capitalizzazione di Mediobanca).
Un dato su tutti è significativo dello sviluppo del BNPL. Negli Stati Uniti, in occasione del Cyber Monday (il giorno che segue il weekend del Black Friday), sono stati spesi 12,4 miliardi di dollari, un incremento del 9,6% rispetto al 2022. Di quei 12,4 miliardi di dollari, 940 milioni di dollari sono stati spesi tramite operatori di Buy Now Pay Later con un incremento del 42,5% rispetto all’anno precedente e un tasso di penetrazione dell’8%. 1 miliardo in un solo giorno, solo negli Stati Uniti: tantissima roba, specialmente considerando il tasso di crescita anno su anno del 42,5%.
Chi ha usato il BNPL ha mediamente acquistato più articoli con un carrello medio più alto del 25% e questo in un contesto macro in cui i consumatori sono stati massacrati dall’inflazione.
Cosa ci dice questo trend? Ormai il BNPL è un’opzione di pagamento imprescindibile se sei un eCommerce come poteva esserlo PayPal cinque anni fa. Un Gen Z alle prese con squilibri temporanei fra entrate e uscite nel suo budget si è ormai abituato alla comodità e alla semplicità di uno strumento così come si è abituato a chiamare un Uber o a ordinarsi il sushi con Deliveroo. Non vedo uno scenario in cui uno studente universitario possa rivolgersi a una banca o a Visa/Mastercard per farsi finanziare l’acquisto delle ultime sneaker di moda. I primi tre operatori di BNPL avevano finanziato transazioni per 35 miliardi di dollari nel terzo trimestre del 2023, con tassi di crescita che vanno dal 20% annuo di Klarna al 70% di PayPal.
Che possibilità hanno le banche di recuperare il terreno perduto in un business dove la scala è tutto e dove anche operatori pervasivi e dinamici come PayPal arrancano dietro un first mover come Klarna? Nessuna.
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In banca tutto bene
Le banche non sono mai state meglio. Dal 2022 gli utili hanno cominciato a crescere costantemente a doppia cifra. La dinamica è piuttosto strana: impieghi stabili o in calo, margini di interesse alle stelle e costo del rischio bassissimo. Per fare un’analogia con settori più terra-terra, è come se un calzaturificio all’improvviso si ritrovasse a vendere scarpe a prezzi più che raddoppiati (margini di interesse) con volumi di produzione in calo (impieghi) e un costo di produzione sempre più basso (costo del rischio). Chi non vorrebbe essere il CEO di un’azienda di questo tipo?
Recentemente ci sono state alcune operazioni che riflettono chiaramente lo stato di salute eccezionale delle banche e in particolar modo delle banche del Sud Europa, una volta così bistrattate dagli investitori.
Due settimane fa il fondo di stabilità greco (HFSF) – quell’entità che era stata creata nel culmine della crisi del debito sovrano per ricapitalizzare le banche greche – ha venduto in una procedura di accelerated book building il 22% di National Bank of Greece ottenendo 1 miliardo di euro. L’operazione è stata un grande successo con investitori esteri che si sono riversati in massa sull’offerta e il book sottoscritto quasi 10 volte. Ad HFSF rimane un altro 18% che venderà successivamente. Le azioni sono state vendute al prezzo di 5,30 euro per azione, un prezzo doppio rispetto a quello pre-COVID. Nonostante i forti rialzi, il prezzo era comunque conveniente, ragion per cui gli investitori hanno accolto così bene l’offerta: parliamo di meno di 5x gli utili e 0,7x il patrimonio netto. Va detto poi che il conto dell’investimento di HFSF in NBG è ancora fortemente negativo. Dopo aver investito 8 miliardi di euro nel 2012 per il 40% della banca, il fondo di stabilità greco si ritrova in pancia 1 miliardo di euro e un altro 20% che – a meno di un miracolo – potrà consentirgli di raccogliere al massimo 1,5 miliardi di euro.
Qui in Italia ha fatto notizia la vendita della quota del 25% di MPS da parte dello Stato tramite un’operazione di bookbuilding. Si tratta in tutto e per tutto di un’operazione simile a quella di NBG, salvo il fatto che in MPS lo Stato italiano è intervenuto in maniera molto meno strutturata prima tramite una ricapitalizzazione precauzionale nel 2017 costata 5,4 miliardi, poi attraverso un’ulteriore ricapitalizzazione costata allo Stato 1,6 miliardi di euro (e non sto considerando gli interventi di pulizia del bilancio tramite AMCO, anche quelli a carico della collettività). Tramite l’ultima operazione di cessione del 25% di MPS, lo Stato ha raccolto 1 miliardo dei 7 miliardi investiti. L’operazione è un successo – sì – ma è difficile pensare che lo Stato possa rientrare dei suoi 7 miliardi investiti in MPS anche cedendo il 39% residuo.
Chi ha comprato quelle azioni a 2,92 euro (con uno sconto del 4,9% rispetto al prezzo di chiusura della seduta precedente) adesso è seduto su una plusvalenza del 15%. Un altro modo di vederla è che lo Stato ha lasciato sul piatto 150 milioni di euro…
Ma come sono le valutazioni delle banche dopo tutti questi rialzi e questa euforia? Troppo care forse? No. Raramente sono state così basse. Gli utili delle banche sono cresciuti così tanto che i prezzi delle azioni non hanno tenuto il passo. È per questo che, in termini relativi, il rapporto P/E è ancora intorno a 5x mentre il rapporto tra prezzo è patrimonio netto è compreso tra 0,7x e 0,5x. Qui di seguito il grafico che riporta l’andamento del rapporto P/E di Intesa Sanpaolo e UniCredit negli ultimi 20 anni:
Le aree grigie rappresentano periodi di recessione in Italia. Come potete apprezzare, valutazioni così depresse le abbiamo avute solo a ridosso di periodi recessivi. È questo che si aspetta il mercato? Una recessione che rende gli attuali utili insostenibili? Questo è sicuramente un aspetto importante. I tassi hanno smesso di crescere, le banche hanno smesso di erogare e in questo contesto è facile aspettarsi un arresto della crescita degli utili, se non una decrescita in caso di recessione che porti le banche ad incrementare il costo del rischio.
Ma forse il discorso è un altro e si ricollega ai puntini che abbiamo cercato di unire all’inizio di questa newsletter.
Gli attivi delle banche non stanno più crescendo, ma Klarna cresce del 40% l’anno con il BNPL. Monzo – grazie al funding che potrebbe ottenere da Google – si può permettere di acquisire clienti spendendo vagonate di soldi in buoni sconto e prestando così allegramente da generare il 15% di sofferenze su un book di appena un miliardo di sterline. Revolut punta ad avere solo in Italia 2 milioni di clienti e si prenderà gli uffici a Canary Wharf che una volta furono di HSBC. Queste banche hanno un costo dell’equity molto basso perché non devono distribuire dividendi, possono chiudere in perdita e continuano a ricevere funding da fondi di venture o big della Silicon Valley, convinti che il business delle banche verrà completamente rimpiazzato da operatori più dinamici. Che poi è quello che è successo nel mondo dei prestiti consumer (POS financing, come si chiama in gergo) con il BNPL. Le banche tradizionali, invece, si confrontano con un cost of equity implicito del 15-20% (si calcola praticamente facendo il reciproco del P/E) falcidiate da regolatori severissimi nel monitorare quanto viene girato agli azionisti delle banche.
L’ultimo Financial Stability Review della BCE dice una cosa molto importante sul costo dell’equity delle banche e sugli impatti che potrebbe avere sul sistema economico
Forse poi questo enorme “sconto” nei multipli di mercato delle banche è in qualche modo giustificato dalla forte variabilità dei loro risultati e del track-record. Sì, le banche avranno anche reso bene negli ultimi anni, ma quale sarebbe il rendimento in 10 anni di un investitore che avesse investito in UniCredit, MPS, BPM o qualche banca greca sistemica?
Nel caso di Monte dei Paschi avreste perso tutto o quasi. Nel caso di UniCredit non avreste guadagnato nulla oppure avreste potuto raddoppiare il capitale se foste entrati nel 2019 prima del COVID. Su Intesa Sanpaolo avreste guadagnato un 62% in 10 anni (più o meno il 5% l’anno). Per non parlare di quello che è successo nel 2023 a SVB o Credit Suisse: due banche con “solidi bilanci” cancellate dalla faccia della terra in poche settimane. Per apprezzare meglio la variabilità dei risultati del sistema bancario, ho tracciato per lo stesso panel di banche sopra gli utili aggregati anno per anno dal 2012 al 2024 e gli utili cumulati nello stesso periodo:
Fino al 2016 complessivamente tutte queste banche hanno accumulato perdite cumulate di 35 miliardi, poi hanno cominciato a produrre utile fino ad arrivare ai livelli massimi del 2023 dove complessivamente produrranno 20 miliardi di euro di utili in un anno. Il conto cumulato 2012-2023 sarà quindi di circa 45 miliardi di euro di utili cumulati in 12 anni. Buono, no? Queste banche ad oggi capitalizzano complessivamente 120 miliardi di euro. Voi comprereste per 120 miliardi di euro una roba che forse in 12 anni produrrà 45 miliardi di utili? Vista da questa prospettiva la valutazione delle nostre banche non è così elevata.
E questo, come dice la BCE, potrebbe essere un problema per le cause, ma non meno che per le conseguenze di queste valutazioni.
Il meme della settimana
Per questa settimana è tutto.
Un grazie speciale a Daniela Bollini che continua a prestare la sua professionalità all’editing di questa newsletter.