In questo periodo si fa davvero fatica a seguire i mangoddi.
Il 2022 è stato abbastanza semplice: inflazione, rialzo dei tassi e fuga dal mercato azionario a causa di un repricing generale del rischio (bye bye tassi a zero).
Il 2023 è cominciato con l’ottimismo ingenuo di chi pensava che con il nuovo anno potesse cambiare tutto. A febbraio, però, è ripresa la solita musica: inflazione, inflazione, inflazione…
Excursus sull’inflazione:
In genere si usano due misure dell’inflazione: 1) un tasso che include tutti gli elementi del cosiddetto paniere dei consumi (la cosiddetta headline inflation, quella che si fa largo fra i titoli dei giornali; 2) un tasso “core” che non tiene conto degli elementi più volatili come il prezzo dell’energia. Nel 2022 il tasso “headline” era sistematicamente più alto del tasso “core” dal momento che i prezzi dell’energia crescevano a ritmi elevati fomentati da strozzature post-COVID e guerra in Ucraina. La speranza era che il tasso “core” sarebbe rimasto basso e che, una volta risolti i problemi “transitori” legati all’energia, saremmo ritornati a tassi di inflazione sotto il 2%. Così non è stato e alla fine con un certo sfasamento temporale gli aumenti hanno contagiato il resto del paniere.
Oggi accade un po’ il contrario: i prezzi dell’energia scendono favorendo un rapido calo del tasso di inflazione headline, ma i prezzi degli altri beni e servizi continuano a salire portando il tasso d’inflazione core su livelli sistematicamente superiori rispetto al tasso omnicomprensivo. Empiricamente quando aziende e dipendenti si abituano ad aumenti di listini e salari del 5-6% l’anno, è difficile tornare indietro solo perché i prezzi delle materie prime ora scendono.
Un rialzo dei prezzi delle materie prime è in molti casi la miccia che accende la mentalità inflattiva degli attori in un’economia, ma un crollo degli stessi prezzi delle materie prime non è sufficiente a sopire la fame di aumenti (quando spegni l’accendino con cui hai acceso un incendio, l’incendio continua a propagarsi). Per quello serve la doccia fredda di una recessione. Solo quando i consumatori non hanno più soldi per permettersi i rincari, le aziende smetteranno di alzare i listini; solo la prospettiva di un lungo periodo di disoccupazione può far desistere sindacati e dipendenti dal chiedere costantemente una fetta più grande della torta alle aziende.
Si è ripetuto quindi un remake del 2022: giù l’obbligazionario, giù l’azionariato. Sembrava insomma che il 2023 potesse in qualche modo essere una ripetizione forse più morbida e meno inattesa di quanto successo nel 2022.
Poi è arrivata la mini-crisi bancaria innescata da Silicon Valley Bank. All’inizio tutto il pessimismo sul comparto bancario ha aggravato la situazione accendendo gli ardori dei profeti di sciagure, ma poi, complice un intervento solerte e tempestivo di banche centrali e governi, la crisi bancaria è rientrata pienamente lasciando sui mercati un’aurea di ottimismo e un mare di liquidità che hanno sostenuto le valutazioni degli asset. Il Nasdaq 100 è ai massimi da settembre 2022. È cresciuto del 9,5% dal giorno del fallimento di SVB e del 20% da inizio anno. Eppure le stime sugli utili delle principali società del settore tech continuano ad essere riviste al ribasso e non passa giorno senza che vengano annunciate misure di austerity in un settore poco abituato alla sobrietà.
Google ha annunciato che risparmierà sulle dotazioni dei dipendenti fornendo solo Chromebook (addio MacBook e Dell fichi di ultima generazione). Amazon continua ad annunciare tagli al personale e anche Meta ha detto ai dipendenti che bisognerà abituarsi a una nuova realtà (che non è il metaverso).
Cosa ha alimentato dunque tanta baldanza in una situazione in cui le banche falliscono e le società tagliano? Per capirlo bisogna leggere due grafici: quello che dà la dimensione del bilancio della Fed e il rendimento dei titoli di Stato decennali statunitensi.
Il bilancio della Fed, che è un po’ una “proxy” del livello di liquidità immesso dalla banca centrale nel sistema, è sceso inesorabilmente fino all’evento SVB, per poi risalire improvvisamente date le misure di sostegno al sistema bancario (non è la stessa cosa del QE, ma sempre di liquidità si tratta).
Il rendimento dei titoli di Stato statunitensi dà invece un’indicazione di dove andranno i tassi nei prossimi anni. Questo valore era intorno al 4% prima del crack di SVB, mentre oggi si attesta intorno al 3,4%, un valore che non si vedeva da settembre 2022. I tassi della Fed, dopo l’ultimo ritocco del 22 marzo scorso sono arrivati al 5%. Il mercato fino a prima del crack di SVB, si aspettava che a fine anno i tassi sarebbero arrivati al 5,5%, mentre adesso le aspettative sono per un taglio fino al 4,5% entro l’anno. Proprio quello che tante società speravano…
Insomma, i fondi di venture capital hanno innescato questa crisi bancaria ritirando in massa i depositi da SVB, sono stati fondamentalmente salvati dallo Stato grazie alla garanzia su tutti i depositi e, per finire, hanno ottenuto quello che volevano per pompare valutazioni delle loro società tech: uno stop al rialzo dei tassi (anzi, un taglio dei tassi) e più liquidità. A voler essere complottisti, si potrebbe pensare che la crisi di SVB sia stata una mossa avventata orchestrata dai fondi di venture capital per forzare la mano della Fed… Se non è complotto, si chiama eterogenesi dei fini.
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Challenger contro challenger
E voi cosa fate con la vostra liquidità? Come previsto su questa newsletter, è partita la corsa da parte di questa o quella challenger bank ad accaparrarsi la vostra liquidità nella forma di conti correnti vincolati. Le offerte sono un po’ tutte uguali: scadenze tra 12 mesi e 5 anni, tassi dal 3,5% al 4,0% per le scadenze più lunghe. La value proposition sottointesa a qualunque offerta è la seguente: "Non importa quanto sia scarso e sconosciuto il nostro marchio, non preoccuparti della solidità del nostro istituto o di come utilizziamo i tuoi soldi, tanto le somme fino 100.000 sono assicurate dal fondo di tutela dei depositi (e anche quelle sopra 100.000… Beh, avete visto com’è andata con SVB, Credit Suisse, le banche venete, etc.) quindi togli tranquillamente la liquidità in eccesso dal tuo conto UniCredit e mettila in Banca Piripicchio. Evviva il moral hazard.
Convengono davvero questi conti deposito come rifugio sicuro per la liquidità? Il rifugio è sicuro, certo (tanto paga il fondo di tutela dei depositi). Quanto al rendimento… I conti vincolati non sono affatto convenienti rispetto a quello che potreste ottenere investendo su normali titoli di Stato senza lo sbatti di aprire un nuovo conto.
Se investite 100.000 su un titolo di Stato a un anno, vi ritroverete a scadenza 2.860 già al netto dell’imposta sostitutiva del 12,5%. Se per caso vi servono i soldi prima di un anno, potrete in qualsiasi momento vendere il titolo di Stato incassando gli interessi maturati e tutto il resto nei tempi tecnici di tre giorni per il regolamento dell’operazione di vendita titoli. Ci sarebbe un po’ di rischio in caso di vendita prima della scadenza che potrebbe portarvi a realizzare un piccolo guadagno aggiuntivo o una piccola perdita, ma su una scadenza così breve è un rischio molto contenuto.
E i conti deposito? CheBanca! attualmente offre un tasso promozionale del 3,50% se investite entro il 30 aprile. Al netto dell’imposta sostitutiva del 26%, significa che dopo 12 mesi avrete 2.590 euro. Un po’ meno di un bot. Il conto deposito di CheBanca! è svincolabile ma dovrete aspettare 32 giorni dalla richiesta per avere i soldi. Al di là delle promozioni estemporanee, il rendimento netto medio di un conto deposito in Italia a 12 mesi è attualmente di circa 1,70% , più o meno 1.100 euro in meno su un investimento di 100.000. In molti casi si tratta poi di conti correnti non svincolabili e in pochi casi svincolabili in 32 giorni (quindi meno liquidi di un BOT).
Qual è dunque la value proposition di tutte queste challenger bank che sono spuntate come funghi in Italia? Diciamo che vivono su un arbitraggio reso possibile da un diffuso analfabetismo finanziario. Lo Stato non fa regolarmente pubblicità per i suoi BOT e BTP. Una persona che non lavora in ambito finanziario e non si informa sulla stampa specializzata non ha idea di quali siano i rendimenti offerti da un titolo di Stato e comprare un titolo del genere può sembrare un’operazione complessa difficile da fare in autonomia. Quindi quando le anime belle vedono su internet o sui giornali la pubblicità di un conto sicuro al 100% che rende il 3% (lordo), vanno subito ad aprirlo e trasferiscono lì quella parte dei loro risparmi che è riluttante ad investire su attività finanziarie più rischiose.
E cosa ci fanno queste fintech con tutte quelle somme raccolte? Le prestano generalmente a PMI sotto forma di factoring, finanziamenti garantiti con garanzia Mediocredito Centrale, oppure a famiglie mediante prodotti poco rischiosi come la cessione del quinto. Ci sono tanti esempi del genere. Banca Progetto, AideXa, Cherry Bank, etc. Il modello di business è abbastanza semplice. Queste banche trovano delle nicchie in cui possono impiegare la liquidità a tassi vantaggiosi, bassa duration e poco rischio: factoring, cessione del quinto, NPL, etc. Su questi impieghi guadagnano mediamente un 2-3% di margine di interesse (differenza tra rendimento degli attivi e costo del funding). Il rischio liquidità è piuttosto limitato visto che molta della raccolta è sotto forma di deposito vincolato (non c’è possibilità di ritirare i depositi).
Le chiamano fintech, ma è un modello di business vecchio che fa leva sui ridotti costi di IT e sull’uso di strumenti di marketing digitale per crescere velocemente, generando tuttavia notevoli inefficienze.
Pensate al prodotto cessione del quinto. È un prodotto abbastanza banale e a bassissimo rischio: ti presto 10.000 euro e io trattengo alla fonte un quinto del tuo stipendio che mi verrà versato direttamente dal tuo datore di lavoro finché non avrai rimborsato il debito nei tempi stabiliti e con gli interessi. Per stare sicuro, ti faccio stipulare anche un’assicurazione che mi copre dal rischio che tu muoia o perda il lavoro.
Una piattaforma davvero innovativa farebbe incontrare la domanda di denaro (prestiti) con l’offerta di denaro (investimenti) automatizzando poi tutto il processo burocratico di contrattualizzazione e perfezionamento della cessione del quinto. In questo contesto gli investitori otterrebbero probabilmente rendimenti più alti di quelli disponibili dai classici conti deposito, mentre i debitori otterrebbero tassi più bassi. Invece abbiamo queste challenger bank che costruiscono questi siti tutti uguali in cui da una parte offrono conti deposito, dall’altra offrono cessione del quinto. Per attrarre clienti (sia depositanti, sia debitori) spendono 6-7 euro a click su Google Ads, il che significa un costo medio di acquisizione clienti di 200-300 euro (dipende dal tasso di conversione, ma secondo me non ci sono andato lontano).
Questo modello funzionava particolarmente bene quando i tassi sui titoli di Stato erano negativi o molto bassi, per cui un conto deposito con l’1-2% di rendimento riusciva ad attrarre parecchi correntisti. Molte di queste challenger bank campavano anche grazie ad aggregatori come Raisin che veicolavano depositi di persone fisiche tedesche e olandesi (abituate a tassi negativi sui propri conti) verso i loro conti deposito. Adesso come abbiamo visto questo prodotto non è più competitivo e i margini si andranno a ridurre notevolmente nel migliore dei casi. Nel peggiore dei casi, queste società faranno fatica ad ottenere lo stesso funding degli ultimi anni e dovranno ridurre gli attivi (nella speranza che abbiano fatto un buon esercizio di matching tra asset e liability). Anche perché non c’è nessuno elemento di differenziazione…
Per quanto io non sia contento del tasso che mi offrono UniCredit o Intesa Sanpaolo, lascerò sempre una quota di liquidità su quei conti perché ne ho bisogno per transare (pagare le bollette, l’ecommerce, etc.). I soldi che un consumatore può mettere sul deposito di Cherry Bank, AideXa o Banca Progetto, stanno lì solo nella misura in cui offrono un rendimento superiore ad altre forme di investimento risk free. Eppure, già ora i titoli di Stato sono una migliore forma di investimento, per cui quella forma di finanziamento è già ora un’anomalia. Anche ammettendo che per qualche ragione l’investitore tragga maggior valore in un conto deposito, la concorrenza tra challenger bank ormai è piuttosto affollata. Se la narrativa iniziale era quella della challenger bank che sfidava gli incumbent, siamo oggi in un contesto in cui le challenger bank si sono ritagliate la loro nicchia fatta di conti di deposito tutti uguali e specialty finance lottando fra loro per accaparrarsi la manna data dall’analfabetismo finanziario di investitori in cerca del 4%. Il problema è che queste challenger cominciano a essere troppe, troppo uguali e poco sostenibili con l’attuale situazione di tassi.
Non sarei sorpreso di assistere a una moria di challenger bank nei prossimi mesi…
Apple Bank
Qualche settimana fa Apple ha annunciato l’avvio del suo servizio di buy now pay later. Il servizio viene abilitato grazie alla partnership con Goldman e con Mastercard, ma i prestiti verranno concessi direttamente da una società chiamata Apple Financing LLC, sfruttando l’enorme quantità di cassa del bilancio di Apple, pari a circa 160 miliardi di dollari (tra cassa e titoli di Stato).
Apple gestirà autonomamente anche il processo di underwriting e credit scoring facendo leva probabilmente sull’acquisizione di Credit Kudos fatta un anno fa. Già adesso Apple guadagna uno 0,1%-0,2% sulle transazioni effettuate tramite Apple Pay rosicchiando una piccola percentuale dell’issuer fee dovuta alla banca che ha emesso la carta. In pratica, se registrate la vostra Mastercard emessa da Intesa Sanpaolo su Apple Pay e pagate il conto al ristorante con il vostro iPhone, su una transazione di 100 euro Intesa Sanpaolo guadagnerà €1,50, ma dovrà retrocedere 10 centesimi ad Apple. Con Apple Pay Later, Apple non solo aumenterà notevolmente il ticket medio e la frequenza degli acquisti fatti tramite smartphone, ma potrà ritagliarsi una percentuale molto più grande bypassando l’emittente della carta e probabilmente esigendo anche qualcosina dal merchant.
E se Apple diventasse una banca?
Certo, è difficile cominciare da zero ma c’è una banca d’affari che si è pentita di essersi avventurata nel fintech e sta cercando ora di uscirne. Una banca che già lavora molto con Apple. Parlo di Goldman Sachs che si è avventurato nel business-to-consumer con il suo conto fintech chiamato “Marcus”.
GS ha imparato a sue spese quanto sia difficile il settore FinTech, in particolare il FinTech per i consumatori. Dopo 7 anni, GS ha gettato la spugna e nell’ultimo investor day ha ammesso che l’avventura nel fintech verso i consumatori non è stata poi una grande idea. Ecco cosa è riuscita a realizzare Goldman Sachs da quando ha lanciato Marcus nel 2016:
✅ Marcus si è espansa fino a offrire prestiti alle piccole imprese, conti correnti e una carta di credito con Apple Pay.
✅ L'attività per i consumatori ha generato oltre 100 miliardi di dollari in depositi e conta oltre 14 milioni di clienti, posizionandosi tra le principali "challenger bank" a livello mondiale.
✅ Nel 2021 ha avuto ricavi per 1,5 miliardi di dollari, cifra che la banca afferma potrebbe raggiungere i 4 miliardi di dollari entro il 2024, secondo il Financial Times.
❌ Marcus ha perso 4 miliardi di dollari negli ultimi 4 anni (escluse le acquisizioni).
❌ Non c'è ancora una strategia per generare profitti.
Marcus ha tre grossi problemi (comuni a tante fintech): 1) ha problemi di underwriting enormi visto che attrae debitori con scarso merito creditizio; 2) deve offrire tassi di interesse sempre più alti per mantenere i depositi e farli crescere; 3) non ha un ecosistema in grado di trattenere i clienti e il suo prodotto è poco differenziato rispetto alla concorrenza.
Apple potrebbe risolvere entrambi i problemi: 1) la clientela di Apple è di tipo premium ed è probabile che abbia un merito creditizio più alto; inoltre l’acquisizione di Credit Kudos dovrebbe aiutare su quel fronte; 2) Apple ha un bilancio mostruoso e non avrebbe bisogno di attrarre depositi con tassi sempre più alti; 3) l’ecosistema di Apple è uno dei migliori al mondo e incorporare i servizi di Marcus lì dentro favorirebbe la qualità di quei servizi oltre a espandere notevolmente la gamma di servizi finanziari dell’ecosistema stesso.
Insomma, altro che challenger bank…
Cosa ho visto
Questa settimana ho avuto il piacere di vedere Air e Tetris. Sono due film che hanno molto in comune raccontando entrambi la storia di due grandi successi imprenditoriali resi possibili grazie al coraggio e alla perseveranza nel rompere con gli schemi. Non è un caso forse che entrambi siano stati prodotti da Apple.
In Air si racconta di come la Nike passò dal rango di marchio irrilevante per il basket ad essere il creatore di quel successo planetario chiamato Air Jordan rompendo gli schemi e introducendo nuovi modelli di remunerazione del rapporto di sponsorship tra marchi e atleti. Il film è un corso avanzato e rapido sull’innovazione aziendale in cui si può apprezzare come l’innovazione germoglia dalla giusta combinazione tra organizzazione e singole persone. Nike è un ambiente votato all’innovazione, ma il suo reparto basket era stagnante e adagiato sugli allori del marchio Nike. Il CEO chiama quindi Sonny Vaccaro, un guru del basket che avrebbe dovuto smuovere le cose. Il rapporto all’inizio è conflittuale tra Sonny e l’organizzazione, ma anche tra Sonny e il CEO stesso. Sonny non ha un assegno in bianco, non ha mano libera e, nonostante sia stato messo lì dal CEO per rompere gli schemi, sarà continuamente criticato e ostacolato internamente dai colleghi e dallo stesso CEO. Alla fine, però, è proprio il CEO che, una volta convinto sulla scommessa folle di puntare tutto il budget marketing su Michael Jordan, dice: “al CdA ci penso io, tu pensa a Michael Jordan”.
Il film è scandito e diviso in 10 capitoli riprendendo i 10 “Principles of Nike”:
1. Our business is Change.
2. We're on offense. All the time.
3. Perfect results count - not a perfect process. Break the rules: fight the law.
4. This is as much about battle as about business.
5. Assume nothing. Make sure people keep their promises. Push yourselves, push others. Stretch the possible.
6. Live off the land.
7. Your job isn't done until the job is done.
8. Dangers. Bureaucracy. Personal ambition. Energy takers vs. energy givers. Knowing our weaknesses. Don’t get too many things on the platter
9. It won’t be pretty.
10. If we do the right things we’ll make money damn near automatic.
Tetris è l’incredibile storia di come uno dei videogiochi più famosi al mondo riuscì a scavalcare la cortina di ferro dell’Unione Sovietica grazie alla tenacia e alla visione di Henk Rogers, un piccolo editore di videogiochi. Henk infrange le regole con coraggio recandosi ripetutamente a Mosca con un visto turistico per convincere alcuni burocrati di un’azienda statale a vendere a lui i diritti per Tetris. In mezzo ci sono scandali finanziari e incredibili vicende di spionaggio (tutte vere al netto di qualche licenza poetica). Il film ha anche il merito di raccontare in modo accurato e semplice le dispute contrattuali legate ai diritti d’autore internazionali e al mercato mondiale dei videogiochi.
Anche questo film è una storia di come l’innovazione venga da un misto di visione, coraggio e perseveranza.
Per questa settimana è tutto.
Un grazie speciale a Daniela Bollini che continua a prestare la sua professionalità all’editing di questa newsletter.
Le immagini sono state realizzate da Midjourney (mi piace troppo scrivere per delegare i testi a un’intelligenza artificiale, ma sul disegno mi faccio aiutare volentieri).