#50 🤞🏦📍Sommersi e salvati
Il trambusto su Deutsche Bank, il lieto fine di SVB e il quieto finale di Credimi
Le notizie che potreste aver letto sulla morte del sistema bancario erano un tantino esagerate, ma c’è parecchio nervosismo in giro.
La scorsa settimana è iniziata con un clima da fine del mondo perché alcuni hanno messo in giro la voce che Deutsche Bank potesse essere il prossimo tassello del domino. In realtà Deutsche Bank era, contrariamente a Credit Suisse, altamente redditizia e, diversamente da Silicon Valley Bank, aveva una posizione di liquidità solidissima supportata da una base depositi altamente diversificata. L’allarme è rientrato ma l’episodio è stato una buona lezione sulle profezie autoavveranti: credo che fallirai, tutti credono che fallirai, quindi fai fatica a finanziarti e siccome fai fatica a finanziarti fallirai… E poi vatti a fidare di questi analisti che passano il giorno a fare le pulci ai bilanci di Wall Street: nessuno tra quelli che oggi pontificano su quanto fossero evidenti le difficoltà di Silicon Valley Bank aveva sollevato il minimo dubbio prima di marzo; gli stessi che oggi pontificano sulla solidità di questa o quella banca sistemica.
I guess I die another day
Ci vogliono tanti miliardi e tanta credibilità per spezzare una self-fulfilling prophecy. Deutsche Bank ci è riuscita anche rimborsando in anticipo un bond tier 2 da 1,5 miliardi di dollari sul quale pagava il 4,5% e che sarebbe scaduto nel 2028. Per DB finanziariamente non aveva senso pagare in anticipo quel bond tier 2 alla pari visto che lo strumento quotava sul mercato 90, ma strategicamente la mossa ha funzionato e la speculazione si è fermata. Tutto sommato DB se l’è cavata con poco. Se DB volesse ora mantenere invariata la sua posizione di capitale, adesso dovrebbe sostituire quel bond tier 2 con un bond di nuova emissione (sul quale probabilmente andrà a pagare di più) oppure distribuire meno dividendi. Come detto più volte da queste parti, le banche pagheranno di più per il loro funding, in un modo o nell’altro: o perché i correntisti cominciano a mettere i loro soldi su titoli di Stato che rendono il 4%, o perché il mercato ti ritiene più rischioso e ti fa pagare premi maggiori sui tuoi bond (senior, preferred, tier 1, tier 2, AT1, etc.).
Sarebbe bene rivedere tutte quelle stime sulla crescita degli utili trainate da margini di interesse sempre più alti. Interessante anche osservare come le stesse banche che si lamentavano dei tassi di interesse troppo bassi, le stesse banche che vedevano gli utili gonfiarsi con il crescere dei tassi, ora invochino uno stop al rialzo dei tassi che è stato troppo veloce. Sant’Agostino pregava Dio di renderlo casto, ma non subito. Quando le banche hanno pregato il regolatore per ottenere un rialzo dei tassi, avrebbero dovuto aggiungere un “ma non velocemente” (giusto il tempo di permettermi di fare hedging sui BTP a 10 anni comprati con un rendimento dell’1,5%).
Un’altra lezione importante dall’evento DB è quella sulla prima regola sulla solvibilità: non si parla di solvibilità. Mai emettere un comunicato per rassicurare il mercato sulla tua solvibile liquidità (vedi SVB e Credit Suisse): non farai altro che far preoccupare il mercato ancora di più peggiorando la situazione. Alle parole, sempre meglio preferire i fatti: come un rimborso anticipato di un bond che quota ampiamente sotto la pari.
Tutti salvi
Intanto Silicon Valley Bank, il paziente zero, ha trovato finalmente un compratore. L'FDIC (l’ente che assicura i depositi) aveva rilevato sostanzialmente tutti gli asset e le passività di Silicon Valley Bank creando una banca ponte chiamata Silicon Valley Bridge Bank, N.A. con lo scopo di valorizzarla sul mercato. Dopo due settimane infruttuose, l’FDIC ha trovato finalmente un compratore in First Citizen Bank che comprerà la banca ponte a un prezzo negativo di 16 miliardi. Sì, un prezzo negativo. First Citizen Bank non pagherà neanche un centesimo e otterrà asset per 111 miliardi di dollari (cash 35 miliardi di dollari, impieghi verso la clientela per 76 miliardi) e liabilities per 97 miliardi (di cui depositi per 56 miliardi e un prestito a cinque anni da 34 miliardi concesso gentilmente dal venditore FDIC a un modesto tasso del 3,5%). Come se non bastasse, First Citizen Bank riceverà una copertura da parte del venditore FDIC che le rimborserà il 50% delle perdite realizzate sul portafoglio impieghi verso la clientela di SVB. All’FDIC rimarranno invece i circa 90 miliardi di dollari di titoli di Stato e ABS che erano nell’attivo di SVB (e che sono stati all’origine delle minusvalenze). In cambio di tanta grazia, l’FDIC riceverà un derivato (warrant tecnicamente) sulle azioni di First Republic Bank che potrebbe valere fino a 500 milioni di dollari (500 milioni in cambio di 16 miliardi di net asset regalati, un finanziamento da 34 miliardi di dollari per cinque anni al 3,5% e un’assicurazione sul 50% delle perdite future).
Piccolo excursus sulle transazioni M&A che coinvolgono le banche.
Le banche sono creature particolari. Quando sentite affermazioni del tipo: la banca di Paperopoli compra la banca di Topolino per 1 euro, in realtà il prezzo non è mai realmente 1 euro. Una banca deve sempre mantenere un certo quantitativo di capitale di vigilanza a fronte di certi asset e passività tenuti in bilancio. Se la banca di Topolino ha asset che costringono la banca di Paperopoli a dover mettere altri 10 euro di capitale per mantenere il suo capitale di vigilanza a un certo livello, il realtà il prezzo pagato è 1+10=11.
Fine dell’excursus.
Considerando un assorbimento di capitale del 9,5% (il target CET1 di First Citizen Bank) e una ponderazione del 100% sul loan book di 76 miliardi acquisito con SVB, First Republic Bank avrà bisogno di circa 7,5 miliardi di capitale oltre a costi di ristrutturazione vari che potrebbero portare il conto a circa 12 miliardi di capitale. Il capitale in questo caso è fornito gentilmente e in modo più che capiente dal venditore con uno sconto di 16 miliardi di dollari sugli asset. Possiamo quindi affermare che l’FDIC ha dato a First Citizen Bank 4 miliardi di dollari per prendersi Silicon Valley Bank.
Grande affare per First Citizen Bank le cui azioni sono infatti salite del 60% dopo l’annuncio del deal.
Lo stile dell’intervento somiglia molto a quello con cui lo Stato italiano diede a Intesa Sanpaolo 4,8 miliardi per prendersi 44 miliardi di asset e 37 miliardi di passività di Veneto Banca e Popolare di Vicenza.
Anche nel caso del salvataggio di Credit Suisse da parte di UBS, abbiamo assistito a un massiccio trasferimento di valore da Credit Suisse a UBS principalmente a spese dei detentori di titoli AT1 di Credit Suisse, degli azionisti di Credit Suisse e delle autorità svizzere (governo e banca centrale) che hanno fornito garanzie e liquidità. UBS ha aumenterà il suo tangible book value per azione del 74% non appena la transazione si perfezionerà. A fronte di un assorbimento di capitale di circa 55 miliardi di franchi svizzeri richiesto per inglobare gli asset di Credit Suisse, UBS riceverà equity per 57,8 miliardi di franchi svizzeri (differenza tra il prezzo pagato e il valore degli asset). Per il momento il mercato ha apprezzato facendo salire le azioni di UBS del 13% rispetto a prima che venisse annunciato il deal.
Ricordo che durante la crisi globale finanziaria del 2008-2009 il pubblico si indignò per i numerosi salvataggi delle banche a spese del contribuente. Tutto sommato, però, con il senno di poi, il contribuente ci guadagnò un bel po’ nella maggior parte dei casi assumendo partecipazioni nelle banche salvate che qualche anno dopo avrebbe venduto con profitto. Sembra invece che il copione di questi salvataggi del 2023 sia molto diverso: il contribuente ci mette i soldi, fa la fortuna di banche più sane affinché queste ultime si prendano l’incomodo di salvare banche meno sane e va bene così, senza il minimo beneficio per il contribuente se non il sospiro di sollievo di non aver visto una banca fallire (evidentemente Lehman Brothers è un’esperienza che ancora brucia).
Una crisi assicurata
Qui in Italia intanto comincia a svilupparsi la nostra piccola crisi in seno al settore assicurativo vita. Non se ne parla molto, ma qui su questa piccola newsletter seguiamo la cosa da vicino avendo anticipato il problema che molte compagnie assicurative si sarebbero trovate ad affrontare. Eurovita è stata posta in amministrazione straordinaria ormai da un bel po’ (il commissario per la gestione si chiama Alessandro Santoliquido. Santoliquido: un nome, un auspicio). Il riscatto delle polizze è bloccato ancora fino al 30 giugno. Si sta ora cercando una soluzione di sistema per rafforzare il capitale di Eurovita, ma non so chi si prenderà la pena di mettere 300-400 milioni di euro su una compagnia che ha un portafoglio pieno di minusvalenze e clienti incacchiati con i soldi bloccati da 6 mesi che non vedono l’ora di farla finita con le polizze vita. Appena l’IVASS sbloccherà i riscatti delle polizze, Eurovita si ritroverà ad affrontare una marea di riscatti, anche se nel capitale dovesse entrarci lo Spirito Santo in persona. Si tratta di circa 300 mila clienti che detengono polizze per un valore di 16 miliardi di euro. Non tanti, ma nemmeno pochi. Interessante osservare come nel salvataggio pare saranno coinvolte anche le banche distributrici delle polizze (Fineco ad esempio): quando distribuisci un prodotto finanziario incassando delle fee senza prenderti il rischio e le beghe della gestione, in realtà sei sempre esposto a un rischio significativo se hai rifilato una schifezza ai tuoi clienti.
Sul tema assicurazioni, io tengo sempre d’occhio quello che succede in Poste Italiane, che è il primo operatore nel ramo primo in Italia e uno dei maggiori compratori di BTP sia con Poste Vita, sia con gli attivi di BancoPosta. L’attivo di BancoPosta a fine 2022 aveva 7,2 miliardi di euro di minusvalenze latenti (erano 6 miliardi alla fine del terzo trimestre 2022, mentre a fine 2021 c’erano plusvalenze latenti per 2,1 miliardi). Poste Vita invece a fine 2022 aveva minusvalenze latenti per 14 miliardi di euro. Le minusvalenze di BancoPosta rimarranno latenti finché Poste non dovrà vendere per qualche motivo i titoli prima della scadenza ed è altamente improbabile che sia costretta a farlo visto che la base di depositi di BancoPosta è altamente diversificata e stabile. Altamente improbabile ma non impossibile: nessuno ritirerà mai i depositi da BancoPosta perché la ritiene poco sicura – anzi: durante la crisi delle banche venete, BancoPosta ha visto un notevole afflusso di liquidità da correntisti che non si fidavano più del sistema bancario. Però ora un rendimento dello 0,01% sul conto BancoPosta spingerà sicuramente alcuni correntisti a parcheggiare altrove la liquidità alla ricerca di rendimenti migliori (godendo di un ecosistema del risparmio e di un brand molto forti, è probabile che Poste Italiane riesca a mantenere quella liquidità all’interno del suo ecosistema fatto di buoni fruttiferi, libretti postali, polizze vita, fondi, etc, ma questo potrebbe creare comunque frizioni). Per quanto riguarda Poste Vita, quelle minusvalenze sono contenute in una gestione separata, sono cioè dei clienti. Tuttavia, dal momento che Poste Vita garantisce determinati rendimenti minimi delle gestioni separate (adesso 0%, in media qualcosina di più sul suo portafoglio assicurativo), quelle minusvalenze impattano sul cosiddetto Solvency II Ratio, che misura l’adeguatezza del capitale di una compagnia assicurativa per far fronte ai suoi impegni (al fine di evitare quello che è successo in Eurovita). Uno dei parametri che impattano sul Solvency II Ratio è il tasso di riscatti (Lapse Rate). Poste Vita ha un tasso molto basso rispetto alla media: 3,5% contro una media del 4,5%. L’IVASS stressa questo parametro al 40% per vedere come le compagnie potrebbero far fronte alle garanzie con il loro capitale. Poste Vita se la cava bene, ma anche qui bisogna capire quanto sia probabile che un investitore continui ad accontentarsi di una gestione separata che gli rende il 2% l’anno quando può in ogni momento riscattare la polizza senza penali e investire al 3-4% in titoli di Stato con lo stesso grado di liquidità e rischio. Non è un caso che Poste Vita dal 2023 spenderà 20 milioni l’anno per i prossimi tre anni per trasferire ad alcuni riassicuratori il rischio di un tasso di riscatti superiore alla norma. Grazie a questa misura, il Solvency II Ratio di Poste Vita è salito dal 223% al 253%: il 2% dell’utile netto per stare più tranquilli mi sembra un buon affare.
Complessivamente Poste Italiane mi sembra sia messa bene: le minusvalenze sui titoli di Stato sono compensate da un ecosistema e una rete in grado di minimizzare riscatti e deflussi e comunque Poste Vita si è attrezzata assicurandosi presso riassicuratori per eventi disruptive su quel fronte.
Certo, Maria Bianca Farina non aiuta la situazione contravvenendo alla prima regola della solvibilità e rilasciando una dichiarazione che nel voler suonare rassicurante risulta invece preoccupante:
“Se i tassi non continuano ad aumentare fortemente come auspichiamo e se l’inflazione rientra in termini più normali, sicuramente il nostro business non avrà contraccolpi di nessun tipo. Ci sono tutti gli elementi per camminare con serenità.”
E se invece i tassi continueranno a salire?! E se le compagnie on buona salute saranno chiamate troppe volte a sostenere altre Eurovita (la cacca nel ventilatore…)
Credici
L’annuncio è stato scritto in maniera molto strana. CF+, challenger bank nata dallo spin-off di Credito Fondiario, ha raggiunto un accordo per l’acquisizione degli asset tecnologici di Credimi per 5 milioni di euro. Eh?! Cinque milioni di euro? E il resto di Credimi? La società è stata messa in liquidazione il mese scorso con delibera dall’assemblea dei soci. Di fatto Credimi ha gettato la spugna e ha venduto a CF+ per 5 milioni quello che restava di buono nella piattaforma che ha costruito negli ultimi 8 anni. 5 milioni di euro rappresentano più o meno il 13% degli oltre 36 milioni di euro investiti dai fondi di venture capital italiani e dai fondatori nella società (senza contare quelli che andranno versati per far fronte al processo di liquidazione).
Credimi è stata una delle prime fintech italiane e uno dei fiori all’occhiello nel nostro ecosistema di startup. All’hype che ha caratterizzato la sua crescita è corrisposta una sordina avvolta di nonchalance circa questo nuovo capitolo della storia. Mi sembra quindi opportuno fare un punto della situazione su cause, conseguenze e implicazioni di questo evento, dato che si ricollega a molti temi trattati di frequente in questa newsletter.
Credimi è fallita? No, non si tratta di uno spettacolare fallimento ma di un processo di liquidazione ordinata di una società i cui asset tecnologici (e forse il brand) continueranno a sopravvivere all’interno di CF+.
Credimi è passata da 1 milione di euro di ricavi nel 2018 a più di 20 milioni di euro nel 2022, che è stato uno dei migliori anni di sempre. La società è sempre stata caratterizzata da una gestione oculata e senza eccessi. Cos’è successo? Il business di Credimi si basa su un modello di origination e securitization. I prestiti alle PMI vengono originati sulla piattaforma e subito messi all’interno di veicoli di cartolarizzazione le cui note sono acquistate da alcuni investitori partner come Anima Sgr, Anthilia Capital Partners Sgr, BG Fund Management Luxembourg S.A. e Tikehau Capital. Credimi infatti non dispone di un bilancio e di un funding adeguato per tenere i crediti originati. Il modello funzionava abbastanza quando i tassi erano sotto zero e i rendimenti richiesti dagli investitori nelle cartolarizzazioni erano compatibili con i tassi che i debitori avrebbero dovuto pagare (4-5%). Poi i tassi hanno cominciato a salire e i tassi richiesti cominciavano a essere meno interessanti. Poi, ultimo trimestre del 2022, il mercato delle cartolarizzazioni si è bloccato non consentendo più a Credimi di erogare prestiti e quindi guadagnare sulle commissioni di origination. Proprio un anno fa su Segui i Mangoddi (La mia banca è indifferente) scrivevo questo (mi piace sempre rileggere quello che scrivevo con il senno di poi, giusto per capire se quello che scrivo possa avere un po’ di attendibilità):
Nel 2021 l’italiana Credimi ha erogato oltre 400 milioni di euro di prestiti alle PMI senza avere né depositi, né un bilancio, ma finanziando il tutto tramite banche partner che comprano titoli di un veicolo di cartolarizzazione (Lumen SPV) in cui vengono impacchettati i prestiti originati sulla sua piattaforma.
Puoi fare a meno della tesoreria, ma, alla fine, è sempre meglio averne una.
Se ne è accorta LendingClub che a causa dei costi elevati delle proprie banche partner non riusciva mai a chiudere in utile, pur crescendo molto. Alla fine LendingClub si è comprata una piccola banca l'anno scorso e, a giudicare dai risultati del 4Q, ha fatto bene (qui un’interessante intervista al CEO Scott Sanborn, e qui sotto una slide con numeri abbastanza impressionante sul perché è sempre meglio avere una tesoreria).
Adesso che i tassi di interesse stanno salendo parecchio in un contesto competitivo reso più docile dal consolidamento degli ultimi anni, la tesoreria è un gran valore e tutto quel focus sui modelli capital light non appare più così intelligente.
Non è un segreto che anche Credimi cercasse di diventare una banca (comprandosi una licenza bancaria), ma il contesto di mercato non particolarmente favorevole e probabilmente regolatori non così benevoli verso startup poco capitalizzate hanno fatto saltare i piani.
Cosa ne sarà del business di Credimi? Il business di Credimi è valido e c’è gran bisogno in Italia di operatori in grado di fornire credito alle PMI in modo rapido e digitale. Credimi continuerà ad operare all’interno di CF+, che sta puntando molto a diventare una banca dedicata alle PMI con focus sul credito garantito da MCC. È abbastanza ironico che alla fine Credimi avrà la sua licenza bancaria. Semplicemente anziché essere Credimi ad acquisire una banchetta per due lire, sarà una banc(hett)a ad acquisire Credimi per due lire facendo leva sulla sua piattaforma tecnologica. Da capire poi come CF+ potrà fare utili finanziandosi con conti deposito al 3-4%, ma questo è un altro discorso…
Che implicazioni ha tutto questo sul fintech in generale? Significa che il valore creato dall’uso intensivo della tecnologia in ambito finanziario non sarà più mero appannaggio del “Tech”, ma anche e soprattutto del “Fin”. Il rialzo dei tassi ha spostato il potere negoziale dalle fintech alle banche perché tutto il sistema di finanza alternativa su cui poggiavano tante fintech (le cartolarizzazioni, il private debt, etc.) si sta sgretolando sotto il peso degli oneri finanziari sempre più alti.
Ciò detto, ci sono due macro trend che nel lungo favoriranno le fintech: 1) la digitalizzazione: le banche avranno a che fare con un cliente sempre più esigente da questo punto di vista 2) l’insostenibile pesantezza delle banche: a cosa servono tante banche che competono tra loro se poi puntualmente devono arrivare Stati e banche centrali a salvare banche che hanno osato troppo? Non sarebbe meglio avere un’unica infrastruttura gestita dalle banche centrali per pagamenti e transazioni (CBDC) e far fiorire intorno a quel sistema una serie di provider per gestire prodotti di risparmio, investimenti e prestiti? In un contesto apocalittico di questo tipo una fintech si può muovere sicuramente più velocemente di una banca spogliata del suo principale vantaggio competitivo: la capacità di raccogliere depositi e di creare denaro dal nulla.
Per questa settimana è tutto. Vi segnalo che Paola, grande testa e sostenitrice di questa newsletter, ha finalmente aperto la sua newsletter. Ci sono interessanti considerazioni sull’intelligenza artificiale.
Un grazie speciale a Daniela Bollini che continua a prestare la sua professionalità all’editing di questa newsletter.
L’immagine cover di questo numero è stata realizzata da Midjourney (mi piace troppo scrivere per delegare i testi a un’intelligenza artificiale, ma sul disegno mi faccio aiutare volentieri).
Alla prossima!
Ottimo come sempre