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Il COVID-19 ha aperto l’era dei bonus a pioggia e dei deficit senza freni (il governo Conte1, che dovette lottare con l’Europa per un risicato deficit del 2,04% necessario ad abolire la povertà, deve aver invidiato non poco il Conte2, che ha regalato cash back e ristrutturazioni a colpi di deficit “high single digit”).
Il grande e prepotente ritorno dell’inflazione, invece, aprirà l’era dei tesoretti ricorrenti da elargire qua e là.
La dinamica con cui abbiamo imparato a familiarizzare in questo 2022 è la seguente:
1) i prezzi salgono (per effetto di domanda elevate e offerta scarsa)
2) il pil nominale aumenta per effetto dei prezzi più elevati
3) le entrate dello Stato aumentano grazie a maggiore IVA e fiscal drag (cioè il trascinamento dei redditi verso aliquote più elevate)
4) il rapporto debito/PIL diminuisce visto che il denominatore di quel rapporto cresce con il rialzo dei prezzi (la crescita del PIL si misura in termini reali, cioè al netto dell’effetto inflattivo, ma il rapporto debito/PIL si calcola sul nominale)
E così trimestre dopo trimestre il governo scopre di avere un “tesoretto” da poter spendere per alleviare le pene di famiglie e imprese alle prese con prezzi sempre più alti. Badate bene: il tesoretto non deriva da una particolare parsimonia nella spesa o da una crescita straordinaria, ma dall’inflazione. Indovinate, però, cosa succede quando metti più soldi in tasca alla gente per sostenerne i consumi? I prezzi non scendono e, anzi, continuano a salire. Si riparte quindi dal punto 1) con più inflazione e un nuovo tesoretto che puntualmente si ripresenterà nel trimestre successivo consentendo ai governi di sostenere le famiglie e allo stesso tempo diminuire il rapporto debito/PIL. Il bello è che in tutto questo il rapporto debito/PIL continuerà a diminuire visto che il denominatore continuerà a salire.
La Turchia, ad esempio, con un tasso di crescita reale del PIL intorno al 3-4% e un’inflazione che fino al 2005 era intorno al 40% per poi stabilizzarsi intorno al 10% è riuscita ad abbassare notevolmente il suo indebitamento relativamente al suo PIL proprio grazie all’inflazione. Notate nel grafico sotto come il rapporto debito/PIL scende velocemente in presenza di un’inflazione altissima tra il 2001 e il 2005.
Questo ciclo è dannoso principalmente per due motivi:
in questo modo l’inflazione rischia non solo diventare persistente, ma anche di autoalimentarsi in una spirale che può portare a scenari turchi o sudamericani, con tutto ciò che ne consegue negativamente su investimenti e crescita; la Turchia avrà abbassato il suo indebitamente grazie all’indebitamente ma chiedere a un turco quando si sente ricco con un potere d’acquisto che si dimezza praticamente ogni anno e una valuta con cui non ci compra nulla all’estero;
la stabilità del potere di acquisto delle famiglie diventa sempre meno dipendente dal mercato del lavoro e sempre più dalle politiche di redistribuzione del governo, che decide come meglio spendere i tesoretti derivanti da una maggiore inflazione. Non è un caso che in paesi con iperinflazione, i governi sono particolarmente autoritari: hanno tante risorse da elargire.
Le banche centrali stanno alzando i tassi a ritmi mai visti per frenare la domanda e ancorare le aspettative d’inflazione su livelli più bassi, a costo di innescare una recessione, ma qualcosa non sta funzionando, un po’ perché hanno iniziato in ritardo, un po’ perché i governi non collaborano.
A maggio scorso su questa newsletter parlavo di un’asincronia tra politica fiscale che rema in una direzione (più soldi alla gente) e politica monetaria che rema in un’altra (meno soldi per contrastare l’inflazione). In quel mese l’inflazione era al 7,3% in Italia con i tassi della BCE ancora negativi a meno 0,50% (che follia!). Sei mesi dopo, i tassi della BCE sono stati portati all’1,50% (un incremento di 200 punti base in sei mesi!), ma l’inflazione è nel frattempo arrivata al 12,8% (bisogna tornare negli anni ’80 per ritrovare valori simili).
I governi non vogliono che il giochino si rompa, specialmente in periodi di scadenza elettorali, e si stanno mettendo sempre più in rotta di collisione con le banche centrali rompendo un patto di 50 anni che assicura indipendenza alla politica monetaria.
Qualche settimana fa il primo ministro finlandese ha ritwitato un professore che scriveva:
There is something seriously wrong with the prevailing ideas of monetary policy when central banks protect their credibility by driving economies into recession.
Sulla stessa linea, Macron si è lamentato degli esperti e dei tecnici della politica monetaria che ci dicono di dover sopprimere la domanda per contenere meglio l’inflazione. Ovviamente noi non ci facciamo mancare niente e anche Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera ha definito azzardata la scelta della BCE di alzare i tassi e interrompere il programma di acquisto di titoli di Stato. Biden, mentre la FED americana alzava i tassi per cercare di frenare la domanda, regalava 10.000 dollari a tutti gli studenti cancellando i loro debiti.
Non è scritto da nessuna parte che una banca centrale debba essere indipendente. Prima degli anni ‘80 la maggior parte delle banche centrali erano degli strumenti operativi totalmente nelle mani dei governi. L’inflazione degli anni ‘70 portò a un nuovo paradigma che riteneva necessaria l’indipendenza della politica monetaria per ancorare le aspettative di inflazione degli operatori economici.
Non è detto, però, che nuovi contesti e shock economici come quelli attuali non portino a nuove teorie. Una banca centrale indipendente è dal mio punto di vista importante per il buon funzionamento di qualsiasi economia aperta ed avanzata, ma sta diventando sempre più difficile giustificare tale indipendenza (associata spesso a una totale mancanza di quella che gli anglosassoni chiamano accountability) nel contesto di ripetuti errori di valutazione, previsione e comunicazione da parte delle banche centrali. Che dire di una BCE che ha tenuto i tassi a -0,5% mentre l’inflazione era al 7% sostenendo testardamente che l’inflazione fosse transitoria (a “hump” per dirla con le parole di Christine Lagarde). E che dire della stessa Christine Lagarde che, mesi dopo, in un’intervista a un quotidiano irlandese, con l’inflazione ormai a doppia cifra in Europa, dice che l’inflazione è arrivata all’improvviso dal nulla?
Aspettiamoci che questo conflitto tra politica e banche centrali diventi sempre più acuto man mano che le banche centrali dovranno fare catch-up alzando i tassi per recuperare il tempo perduto, mentre i governi continueranno a spendere assecondando la pancia del Paese. La politica con la P maiuscola avrà la meglio sulla politica monetaria, ma le conseguenze potrebbero essere destabilizzanti nel migliore dei casi.
Amazon
Ogni tre mesi ai CEO e ai CFO delle aziende quotate tocca prestarsi a tenere una call con gli analisti per la presentazione dei risultati trimestrali. Il rituale è sempre lo stesso. L’area finanza della società tira fuori i risultati in maniera asettica; l’investor relator e il CFO provano ad incipriare i numeri con grafici e confronti lusinghieri interpretandoli con un grande esercizio di ottimismo; il CEO riceve il pacchetto completo e aggiunge qualche frase ad effetto su dove sta andando il mercato. Una schiera di analisti attenti ascolta diligentemente la pappa pronta e cucinata dalla società di turno e poi prova a fare qualche domanda dal carattere a volte deferente, a volte educatamente curioso, ma raramente scomodo. Lo scopo di quelle domande, in quel contesto, è meno incalzare chi le riceve che mostrare le virtù intellettuale di chi le pone.
Generalmente le call trimestrali sui risultati sono piuttosto noiose, ma, in questo momento così particolare per l’economia globale, è istruttivo e interessante vedere come se la cavano alcuni colossi globali e sentire le parole dei loro CEO per capire come sul piano “micro” si traducono le tendenze “macro”.
Oggi parliamo di Super Amazon (ciao Stefania!)
Quale migliore società di Amazon per carpire con un’unica trimestrale lo stato di salute dei consumatori, gli effetti dell’inflazione sui margini delle aziende e i trend nel settore IT?
Le vendite online di Amazon battono la fiacca con un misero +7%. La crescita è frenata soprattutto per effetto del dollaro forte che deprezza il valore delle vendite all’estero. Senza l’effetto cambi, le vendite online sarebbero cresciute del 19%. Ho notato che tante società americane che negli ultimi non si curavano di parlare di effetto cambi quando remava a loro favore, quest’anno insistono nello spiegare che la crescita bassa delle vendite è colpa del dollaro forte.
La maggior parte del business opera in perdita, ad eccezione di AWS (servizi cloud) che ha un EBIT di 5,4 miliardi di dollari che però comincia a battere la fiacca in termini di crescita rispetto ai concorrenti. Il resto è in perdita e senza il boost del lockdown sembra destinato a rimanere lì.
Quel che è peggio è che negli ultimi 12 mesi Amazon ha bruciato 26 miliardi di cassa sotto il peso dei 66 miliardi di investimenti effettuati nello stesso periodo. Il cash flow operativo (prima degli investimenti) è tornato ai livelli pre-COVID di 39 miliardi, ma gli investimenti sono quadruplicati nel frattempo e si mantengono elevati, con Amazon che si diverte ad acquistare società di aspirapolveri come iRobot o assicurazione come One Medical.
Qui sotto il cash flow last twelve months trimestrale di Amazon:
Giustamente le azioni sono tornate lì dove erano pre-COVID, intorno a 90 dollari. Ci sono ancora 58 miliardi in cassa, ma se Amazon continua così, saranno finiti nel giro dei prossimi due anni.
Sull’inflazione, le prospettive di Amazon non sono rosee:
The continuing impacts of broad-scale inflation, heightened fuel prices and rising energy costs have impacted our sales growth as consumers assess their purchasing power and organizations of all sizes evaluate their technology and advertising spend
Per riassumere: (i) le vendite online sono fiacche (nonostante due prime day); (ii) i servizi cloud, gli unici che garantiscono un po’ di redditività, crescono meno rispetto ai concorrenti e rispetto al passato; (iii) il cash flow è fortemente negativo; (iv) l’outlook per l’ultimo trimestre (quello che dovrebbe essere più carico) è assai negativo.
Non c’è di che essere allegri. Per fortuna la nuova BU di advertising sta andando bene: ha raggiunto ormai quasi la metà dei ricavi dei servizi cloud. Sempre più clienti investono in pubblicità per far comparire i propri prodotti in alto nelle ricerche fatte su Amazon. Un’inserzione posta lì dove avvengono le transazioni vale sicuramente molto più rispetto a un qualcosa di generico che ti appare sul feed di Facebook. Non a caso il business della pubblicità di Amazon comincia pian piano ad intaccare sempre più quote di mercato al duopolio Meta-Google:
Intanto Amazon comincia a tirare le cinghia bloccando le assunzioni:
We anticipate keeping this pause in place for the next few months, and will continue to monitor what we're seeing in the economy and the business to adjust as we think makes sense
Il contenimento dei costi è una misura tipica da società matura che le società tech non hanno mai sperimentato assumendo e strapagando dipendenti senza badare a spese anche in tempi magri. Tanto i ricavi crescono sempre e gli azionisti si focalizzano sulla crescita. Ora che la musica è cambiata e che i CEO l’hanno capito, potremmo vedere delle sorprese molto positive sui margini di società che sembrano poco profittevoli o in perdita in questo momento. C’è molto grasso nei conti economici di queste società. I costi di marketing e amministrazione in Amazon sono di 200 miliardi di dollari l’anno e l’EBIT è di 13 miliardi. Basterebbe tagliare il 13% dei costi per triplicare l’EBIT.
Quello che vale per Amazon, vale al cubo per attori più piccoli.
1) i consumatori non se la passano così bene; se vendete al retail, aspettatevi vendite deboli; 2) le aziende riducono l’IT spending: se vendete microchip, servizi IT e vi rivolgete a PMI, preparatevi a tirare la cinghia, perché questo è quello che fanno i vostri clienti con voi; 3) se i costi di logistica hanno un certo impatto sul vostro conto economico, preparatevi a soffrire sui margini; 4) se il vostro business è nella pubblicità, vi conviene non essere generalisti 5) “hire first, be profitable later” non funziona più per gli azionisti: tagliate i costi.
Apollo
Marc Rowan è uno degli investitori più scaltri al mondo e dirige un colosso come Apollo con oltre 520 miliardi di dollari in gestione. Quando i fondi pensione inglesi hanno dovuto liquidare le loro posizioni in asset illiquidi (CLO) per far fronte alle margin call derivanti dal crollo dei titoli di Stato, Apollo era dall’altra parte del trade a comprare a prezzi di saldo.
Ecco come Mark commenta il contesto particolare in cui si trova il mercato:
Good morning to all. Apologies in advance for sounding like a losing Texas football coach. I will do my best. I thought where I'd start is really to start with the macro or the market backdrop. I have a chart on my office wall that traces the movement of the S&P following the 2008 financial crisis and following the beginning of tightening in this round by the Fed. They are almost on top of each other.
What we expect would happen when we printed $8.1 trillion as a country? Well, exactly what should have happened. Assets almost across the board elevated in price to multiples and levels we had never seen before. Risk was off. Everything went up. Interest rates went down. Now that we have begun tightening, we are doing nothing other than resetting to more normal levels. We act, and the market backdrop is somehow that low interest rates and excess liquidity are the norm. They are not, certainly not over my nearly 40-year career and not over any sort of long-term investment cycle. We have an entire generation of investors, investment analysts, who have really grown up just seeing the market go in one direction. And we now all know it goes both ways. If I just chart what happened so far this year, venture capital valuations are down 60%, Nasdaq down 30%, S&P down nearly 20%, Barclays AGG down 17%.
This is an amazing time for alts, alternatives, particularly for credit. Investors have now discovered that everything is correlated to the Fed. And they are also discovering that 3 most, if not all, of last decade's investment acumen was really nothing other than market beta and in some cases, nothing other than levered market beta. Over the past decade, investors kind of got a free ride. There was not much need for alternatives as markets moved primarily in one direction, yet, as an industry, alternatives grew tremendously. When I think about the market backdrop we are in today, alternatives should shine. After all, as an industry, we exist because we produce excess return per unit of risk. And for the first time in a decade, investors are asking not just about the reward, but about the risk associated with investments. Alternatives offer diversification, in many instances, downside protection and an escape from correlation and indexation. That is the backdrop that I see for our industry. For us, this is a particularly good time. We did not chase a hot dot of growth at any price over the past decade. Our business continues to be guided by 3 fundamental principles: purchase price matters, excess return per unit of risk and aligned investing.
Tutto molto condivisibile e ben detto. Peccato che con i tassi così alti, gli asset alternativi non beneficeranno più di flussi ingenti provenienti da fondi pensione e assicurazioni alla caccia di rendimenti sopra il 3-4% (possono semplicemente investire in titoli di Stato).
Ricordo quando lavoravo in Poste Vita e avevo provato ad investire nel fondo IX di Apollo che il fund raising si chiuse in soli sei mesi con 24 miliardi di capitale raccolto, superando l’hard cap di 23.5 miliardi di dollari e non consentendo a tanti investitori (me compreso) di entrare. Oggi il fund raising del nuovo fondo X, con un obiettivo di 25 miliardi, ha raccolto “solo” 14 miliardi di dollari dopo quasi un anno, con Apollo che ha dichiarato di estendere il periodo di fund raising fino a giugno 2023.
Sempre super. Tra le migliori newsletter nella mia inbox by far.