#35 📝📉Corporate governance, questa sconosciuta
Long time no see (più di un mese)
Ancora non sono riuscito a trovare la formula giusta per dare più regolarità a questa newsletter. Riproviamoci allora.
Meglio scrivere più frequentemente con un tenore più colloquiale e conciso, oppure distillare lunghi testi ben circostanziati e monotematici ogni due-tre settimane? Mi farete sapere cosa vi piace di più (potete farlo anche rispondendo direttamente a questo messaggio).
Grazie per i “caffè” che continuate a offrire via PayPal/Satispay e grazie per promuovere questa newsletter che si sta avvicinando al piccolo traguardo dei duemila lettori.
Telecom
Tre mesi fa nel #28 di Segui i Mangoddi (I barbari al telefono), prendevo spunto dalla manifestazione di interesse per KKR su Telecom Italia per ripercorrere la travagliata storia del nostro storico operatore telefonico e commentare l’ennesimo schiaffo agli azionisti di minoranza sotto scacco di Vivendi e CDP.
Di fronte a una potenziale offerta che valorizzava Telecom 0,505 per azione, un premio del 50% rispetto ai corsi azionari “undisturbed”, Vivendi faceva spallucce chiedendo a KKR di alzare il tiro. CDP con il suo 10% e il Governo con la sua golden share decidevano di mettere la testa sotto la sabbia ignorando la questione. La situazione politica ai tempi non era delle più stabili con le incombenti elezioni del Presidente della Repubblica e il Governo non era nelle condizioni di prendere decisioni sul passaggio di proprietà di un asset così importante come Telecom Italia. Anche decidere di non decidere, però, è una decisione. Qualcuno dalle parti di Palazzo Chigi deve aver pensato: non è il momento adatto per questa offerta, ma non voglio neanche mettermi di traverso dando l’impressione che questo Governo sia ostile verso il mercato. Lasciamo che sia Vivendi a vestire i brutti panni dell’azionista guastafeste.
Siamo a marzo. Tre mesi dopo quella manifestazione d’offerta ne sono successe di cose: una guerra (operazione speciale, se parlate russo), tanto per cominciare; poi la defenestrazione dell’AD di Telecom Italia (colpevole di aver cospirato con KKR per togliersi Vivendi di mezzo? Chi lo sa); l’ingresso di Labriola come nuovo AD; un nuovo piano industriale che delude il mercato (l’ennesimo) e una perdita monstre da 8,7 miliardi (più dell’intera capitalizzazione di Telecom Italia) legata alle solite svalutazioni che i nuovi amministratori delegati sono soliti fare per dare un taglio con il passato (tanto è colpa del management precedente).
Nel frattempo, non una risposta a KKR in quattro mesi. Il titolo Telecom Italia, che si era avvicinato al prezzo indicato nella manifestazione d’interesse di KKR arrivando a toccare 0,49, scende di giorno in giorno con l’affievolirsi della speranza che l’offerta venga accolta toccando il nadir di 0,20 dopo la presentazione del nuovo piano di Labriola e la maxi perdita.
C’è da chiedersi chi si sia sentito più in imbarazzo tra Vivendi che ha bloccato un’offerta a 0,50 o KKR che quell’offerta l’aveva formulata.
A tutto c’è un limite e diversi investitori internazionali cominciano a chiedere a Labriola se con il titolo a 0,20 avesse ancora intenzione di non rispondere a KKR (se non altro, per dire “no, grazie”). Anche perché il piano di Labriola non contiene niente di rivoluzionario se non mettere in atto la strategia dello spezzatino prospettata da KKR. È così che Labriola si lancia in una spiegazione un po’ imbarazzante trattando noi e il mercato come dei poveri sprovveduti (si potrebbe coniare il termine Ceosplaining mutuandolo dal più noto mansplaining):
Per quel poco che ci è dato sapere [KKR] sembra voler valorizzare gli asset gruppo in modalità abbastanza simile a quello che stiamo operando noi, ovvero separare la rete, integrazione verticale e valorizzare gli altri asset. Se loro lo fanno esternamente vuol dire che vedono in questa modalità la possibilità di estrarre valore che immagino sia maggiore di 0,5 euro, nessuno fa nulla per beneficenza. È probabile, quindi, che questa creazione di valore ci possa essere anche se lo facciamo internamente e in questo caso probabilmente il delta di valore generato riesce a essere redistribuito verso tutti gli azionisti, di maggioranza e di minoranza. Dunque, la sfida del management è quella di andare a vedere noi come facciamo ad estrarre del valore anche nella stessa modalità che loro immaginavano. Questo è il lavoro che dobbiamo fare in questi tre mesi.
Ragionando così non si farebbero più operazioni di M&A: chi compra una società lo fa sempre per guadagnarci e allora perché far guadagnare altri quando io posso fare la stessa cosa?
L’argomentazione di Labriola ha due grossi punti deboli. Il primo è che tra (a) prendermi 0,50 centesimi per azione oggi e (b) aspettare che tu esegua il piano di valorizzazione degli asset cercando di riportare il titolo da 0,20 a 0,50 in 1 anno (se tutto va bene) prendendomi tutto il rischio di execution, io scelgo tutta la vita di incassare i 50 centesimi per azione con l’opzione a. E se KKR ci guadagna, tanto meglio, visto che si è assunta il rischio (nessuno fa niente per beneficienza, non KKR, ma neanche gli azionisti di minoranza Telecom che aspettano da anni una qualche svolta strategica). E poi c’è appunto l’execution, tradotto in italiano con l’orribile espressione “mettere a terra”. Labriola sarà una bravissima persona e un bravissimo manager ma il track record di Telecom Italia e del suo attuale azionista di riferimento è alquanto lacunoso per quanto riguarda execution e corporate governance. Sono più di quattro anni che si parla di valorizzazione della rete e integrazione e tutto è rimasto su un binario morto. Poi c’è un altro piccolo particolare. KKR ha una quota di minoranza qualificata in FiberCop, il veicolo societario in cui è stata conferita la rete secondaria, cioè quella parte della rete che parte dagli armadietti sulle strade e arriva fino all’appartamento: l’ultimo miglio. Il nome FiberCop deriva probabilmente dall’unione di Fiber (fibra) e Copper (rame), per descrivere l’attuale natura mista dell’ultimo miglio. Tuttavia “cop” potrebbe anche stare per “poliziotto” per descrivere l’uso che KKR farà di questo veicolo. Qualsiasi operazione di valorizzazione dell’asset rete e integrazione con Open Fiber deve passare attraverso FiberCop dove suppongo KKR abbia dei patti parasociali a tutela del suo investimento (che non sono stati opportunatamente comunicati al mercato). Quindi non credo che Labriola possa godere di molta flessibilità nel suo piano di emulazione del piano KKR.
Comunque alla fine Telecom Italia si è degnata di rispondere a KKR concedendo una “selective disclosure” (non una full due diligence), ma solo a seguito di un’offerta vincolante (prima paghi, poi vedi cosa c’è dentro) da inviare entro il 4 aprile. Silenzio per quattro mesi e poi dai al potenziale acquirente pochi giorni per confermare un’offerta senza aprire i libri. Per carità, tutto legittimo, ma non so quanto saranno felici gli azionisti.
KKR ha risposto che non farà offerte senza due diligence, considerando anche le mutate condizioni di mercato. Vivendi è molto felice perché dalla vendita a pezzi di Telecom Italia forse riuscirà ad estrarre più di quei 0,50 anche e soprattutto grazie ad operazioni con parti correlate di cui non beneficeranno gli azionisti di minoranza. CDP è contenta perché anche lei riuscirà ad estrarre più di quei 0,50 per azione grazie ad una maxi operazione con una parte correlata, cioè la fusione con Open Fiber di cui è azionista di maggioranza nell’ambito della quale sono sicuro che verrà definito un concambio di mercato molto favorevole ad Open Fiber. Il Governo è contento visto che manterrà un asset strategico sotto il suo diretto controllo. E gli azionisti di minoranza? Se tutto va bene, usciranno da Telecom Italia con valori del 20-30% inferiori a 0,505 maledicendo la corporare governance italiana e il giorno in cui hanno deciso di investire in Italia.
Nel frattempo, essendo off limits Telecom Italia come entità intera a causa dei suoi ingombranti azionisti, si sta creando parecchio traffico per acquistarne i pezzi con processi non sempre molto trasparenti. Si continuano a vendere pezzetti di Inwit (le torri) ormai considerata non più strategica e lasciata alla mercé di Vantage Towers (la società infrastructure di Vodafone). CVC ha fatto un’offerta per il 49% di un ramo d’azienda in cui raggruppare i contratti business ed enterprise di Telecom Italia. Iliad e Apax, che avevano provato a comprare Vodafone Italia, ora starebbero considerando di fare un’offerta sulla ServiceCo di Telecom Italia (la società consumer separata dall’infrastruttura). Vivendi intanto, dopo aver contribuito all'affossamento dei conti di Telecom Italia avallando la scelta di offrire a DAZN dei minimi garantiti in cambio dell’esclusiva su Tim Vision, ora si è offerta di comprare Tim Vision per due lire.
Quando i CEO cambiano rapidamente e le società vengono vendute a pezzi snobbando offerte sulla società, ci possono anche essere buone intenzioni alimentate dalla convinzione che la somma delle parti sia superiore al prezzo offerto per il tutto, ma nella maggior parte dei casi la somma delle parti non torna (o non viene mai incassata).
Intanto il progetto rete unica procede con molta calma. A due anni di distanza dal primo Memorandum of Understanding tra Telecom e CDP, Open Fiber e Telecom hanno firmato poche settimane fa un accordo di riservatezza (NDA) per avviare il tanto discusso percorso verso la rete unica con Open Fiber. L’NDA non vincolante stabilirà i primi passi per valutare la fattibilità della rete unica e si pensa che a seguito di questo primo accordo verrà fissata una scadenza di un mese per sottoscrivere un altro Memorandum of Understanding, che chiarisca nel dettaglio tempi e modi delle valutazione degli asset da mettere insieme.
Sempre con comodo.
Generali
Sempre parlando di grandi temi revival e corporate governance bacata, la contesa per la nomina del prossimo board di Generali si fa sempre più interessante. Su Segui i Mangoddi se ne era parlato ampiamento ad ottobre scorso.
Per farvela breve, il 29 aprile ci sarà l’assemblea degli azionisti per decidere il rinnovo del prossimo CdA di Generali. Alcuni azionisti (Del Vecchio e Caltagirone), alquanto scontenti della gestione poco dinamica e a volte troppo “interessata” della compagnia, hanno investito diversi miliardi per acquistare una quota della compagnia vicina al 19% e farsi promotori di una lista di consiglieri guidata da Luciano Cirinà, manager interno di Generali.
Mediobanca, quale azionista di maggioranza relativa (molto relativa), ha risposto con una serie di colpi bassi. In primo luogo si è fatta prestare un pacchetto di azioni Generali pari al 4,5% del capitale per pareggiare la conta delle azioni con gli azionisti recalcitranti (un qualcosa di un po’ borderline). Poi ha fatto presentare al CdA uscente una sua lista spacciandola per una sorta di lista indipendente, quando in realtà si tratta palesemente di una lista in forte continuità con l’azionista Mediobanca (non me ne voglia e mi quereli Generali, ma è un po’ difficile sostenere il contrario nella sostanza). Poi si è cominciato ad istituire all’interno di Generali una sorta di clima putiniano. Luciano Cirinà, che si era autosospeso prendendosi un’aspettativa vista la sua designazione come amministratore delegato della lista concorrente rispetto a quella presentata dal CdA uscente, è stato licenziato in tronco per esser venuto meno “agli obblighi di lealtà”. La pistola fumante sarebbe il piano industriale alternativo “Awakening The Lion” pubblicato dagli azionisti rivoltosi dove pare ci siano le impronte del manager di Generali (come se nel piano industriale di Generali o nella sua lista “indipendente” non ci fossero le impronte di Mediobanca). Come se non bastasse, dopo aver osato dichiarare in un'intervista che la lista del CdA uscente era in realtà una lista di Mediobanca, Cirinà è stato denunciato con un esposto alla Consob. Generali ha inoltre deciso anche di rivolgersi alle autorità giudiziarie penali e civili “perché siano sanzionati i comportamenti da chiunque illecitamente tenuti in quanto di fronte a gravi violazioni degli obblighi di correttezza nell’informativa posti a tutela degli azionisti, degli investitori e del mercato, che minacciano di alterare le dinamiche di mercato e la corretta determinazione del voto in assemblea”.
Come ulteriore gesto in gran favore di Mediobanca, la data utile per acquisire il diritto di voto in assemblea (record date) è stata fissata il 15 apri, due settimane prima dell’assemblea, un termine insolitamente ampio che avrà l’effetto, da una parte di limitare la possibilità per gli azionisti “rivoltosi” di acquistare ulteriori azioni sul mercato utili per votare, dall’altra di consentire a Mediobanca di restituire le azioni prese in prestito (sui cui paga interessi) già il 14 aprile mantenendo il diritto di partecipare in assemblea, limitando così il costo di quel prestito. Nelle precedenti assemblee di Generali il termine per il deposito era di sette giorni.
Generali sta investendo molto su questa assemblea tanto da acquistare anche keyword su Google (se scrivi un generico “assemblea azionisti” su Google ti viene fuori questa roba).
Mi chiedo quale sia l’interesse di un emittente a spendere soldi per pubblicizzare il proprio sito di corporate governance in occasione di un’assemblea.
Un’altra peculiarità di questa assemblea è che Generali stessa si è fatta promotrice di una sollecitazione di deleghe per il voto in assemblea in favore dela propria lista, ma anche del piano di incentivazione del management (altri soldi spesi). Caltagirone ha fatto lo stesso ovviamente, ma è normale visto che sta raccogliendo voti per proporre un cambio di management in Generali. Non mi sarei sorpreso se l’avesse fatto anche Mediobanca per promuovere la sua lista, è nelle prerogative di qualsiasi azionista importante raccogliere deleghe. Un emittente, però, che ingaggia Morrow Sodali per raccogliere deleghe di voto per la propria assemblea in favore della propria lista… Si può essere più autoreferenziali?
E si può essere più scorretti nel pubblicare il PDF del proxy advisor di Caltagirone in modalità “immagine” senza link cliccabili e il proprio con i link cliccabili? (ma forse il pdf di Caltagirone l’hanno ricevuto così, voglio sperare).
Atlantia
Vi ricordate il post dell’estate scorsa sulla vicenda Autostrade per l’Italia? Scrivevo che Atlantia non sarebbe restata più di un anno quotata a Piazza Affari. È arrivata infatti una bella offerta da parte di Edizione e Blackstone da 19 miliardi di euro che porterà via Atlantia da Piazza Affari. La BidCo (nome con cui si chiamano affettuosamente le società di nuova costituzione che comprano materialmente le azioni in un’offera) si chiamerà Schemaquarantadue questa volta (Schemaventotto era il nome della BidCo utilizzata per il primo leveraged buyout di tanti anni fa) e sarà capitalizzata con 8,2 miliardi di debito e 13,5 di equity (di cui 8,8 dalla famiglia Benetton che reinvestirà i proventi derivanti dalla vendita del suo 30% a Schemaquarantadue) e 4,7 miliardi da parte di Blackstone (che probabilmente utilizzerà ulteriore leva in un veicolo ancora più in alto nella catena). E poi ci sono i 9 miliardi di euro che Atlantia incasserà dalla vendita di Autostrade per l’Italia che saranno molto utili per rendere il debito dell’OPA sostenibile.
Intanto è arrivata la notizia che i Benetton stanno lentamente consegnando un altro colosso italiano a un operatore straniero (come biasimarli, visto come sono andate le cose in Italia?). Dufry starebbe considerando una fusione con Autogrill. Quando parlano di fusione “tra pari” è sempre importante capire chi resta al comando. In questo caso sarà l’amministratore delegato di Dufry. I Benetton dopo aver diluito la loro partecipazione dal 50% al 20% potranno venderla comodamente e progressivamente sul mercato senza suscitare grosso scalpore.
Cosa sto leggendo
Franzen ha il potere di ambientare romanzi in tempi e luoghi apparentemente poco interessanti, metterci dentro personaggi piuttosto mediocri e tuttavia riuscire a far emergere la bellezza e la complessità della natura umana. Questa volta la storia è ambientata negli anni Settanta, nella profonda provincia dell’Illinois. I protagonisti sono i membri della famiglia Hildebrandt, descritti mentre attraversano un periodo di grandi cambiamenti. Il padre, Russ, è in crisi di mezza età. La madre, Marion, è alle prese con i ricordi della sua gioventù difficile. Tre dei quattro figli – Becky, Clem e Perry – attraversano adolescenze così traumatiche da avermi fatto perdere il sonno pensando a cosa dovrò affrontare tra una decina d’anni come genitore (mia figlia si chiama poi come una delle protagoniste). Come al solito, nei romanzi di Franzen i tormenti interiori di personaggi di tipo ossessivo e maniacale (centrati sul sesso, sulle relazioni sentimentali, sulla droga) sono il principale campo di interesse di Franzen. In Crossroads, però, si riescono ad affrontare anche altri temi laterali che però servono a dare più respiro al romanzo come ad esempio la religione. I mangoddi sono sempre grandi protagonisti nei romanzi di Franzen, che ha sempre contestualizzato cause e sfoghi dei tormenti interiori dei suoi personaggi nel tema delle differenze sociali. In Crossroads questo tema è più sfumato, ma anche lì i personaggi sono sempre in qualche modo animati se non dal denaro, dalla sua mancanza. Il romanzo si apre con una disperata contabilità per racimolare soldi per i regali natalizi e quando Becky si ritrova beneficiaria di una piccola eredità da 10 mila dollari, quei mangoddi saranno il colpo di grazia per i suoi rapporti con la famiglia.
Un romanzo con cinque personaggi principali e tanti temi “pesanti” non è facile da gestire ma tutto sommato il risultato è di gran qualità. Certo, quando ho scoperto che Crossroads è una trilogia e che i prossimi due romanzi di Franzen parleranno ancora della famiglia Hildebrandt, mi è preso un colpo, ma vedremo.
The Bond King è una sorta di biografia non ufficiale di Bill Gross e di PIMCO, uno dei più grandi asset manager salito sulla scena cavalcando le grandi trasformazioni nel mercato obbligazionario. È un libro interessante sotto tanti punti di vista. In primo luogo vi dà la misura di come non deve essere gestita un’azienda. Gross perderà il controllo di PIMCO per colpa della sua ossessione per il controllo e della sua totale mancanza di leadership “empatica”. È una macchina, si sveglia alle 3 del mattino per stare in ufficio già aggiornato su tutto alle 7. È un fine calcolatore del rischio, ma quando si tratta di gestire la presenza di manager importanti come El-Erian o Ivascyn è una mina vagante. Bill Gross si è fatto le ossa contando le carte a blackjack nei casinò di Las Vegas: da lì ha imparato che il rischio non è controllabile, ma quantificabile. Il segreto del suo successo nel mercato dei bond è stato quello di alzare molto la posta in gioco quanto il rischio era più basso ed essere molto prudente quando i mercati erano euforici prima del 2008, nonostante questo gli stesse costando molto in termini di underperformance rispetto alla concorrenza.
Nello scenario post-Lehman, Bill Gross comincia a perdere colpi. Un po’ per colpa del suo stile manageriale, ma soprattutto perché il mercato obbligazionario da quel momento in poi cambia radicalmente diventando un tavolo truccato dalle banche centrali catturate dalla politica. Il rischio viene totalmente azzerato da acquisti massimi delle banche centrali con tassi di interesse che si sono mossi negli ultimi quindici anni in un’unica direzione. In questo contesto hanno prosperato i cosiddetti asset manager alternativi (private equity, real estate, ecc.), lasciando PIMCO molto indietro, che pure grazie a Ivascyn e al fondo “Bravo” aveva cercato di assumere una certa rilevanza nei segmenti degli asset “alternativi”, ma che per colpa di Gross, non aveva mai sviluppato molto quella parte dell’asset management.