#34 🏛 La mia banca è indifferente
Buongiorno a tutti, soprattutto ai 40 nuovi iscritti di questo mese. Prima di cominciare vorrei ringraziare Rachele, Mario, Carlo e Simone e altri tre gentili lettori non identificati per avermi offerto un caffè tramite PayPal e Satispay. Come sapete, questa non è al momento una newsletter a pagamento, ma qualsiasi liberalità o contributo, anche tramite condivisioni mirate ai vostri colleghi/amici che pensate possano essere interessati, sono per me un grande stimolo nel continuare a sottrarre ore al sonno per dedicarmi a questa passione. Un ringraziamento speciale va anche alla mia famiglia che deve sopportare il mio essere sempre tra le nuvole quando penso al prossimo numero di Segui i Mangoddi senza avere il tempo di scriverlo.
Come promesso, ma con molto ritardo, questa settimana parlo delle diverse infrastrutture che compongono una banca. Prima però un aggiornamento su come la sanzioni in Russia, di cui ho parlato in #33 Forza Ucraina si stiano mostrando inadeguate.
Rispetto a un mese fa il rublo si è leggermente rivalutato (sì, rivalutato!). Ci vogliono 96 rubli per comprare un dollaro. Subito dopo l’annuncio delle sanzioni, il rublo si era svalutato del 30-40% e ce ne volevano 150 per comprare un dollaro. Il petrolio Brent, invece, è passato da 100 dollari a 120 dollari e il gas da 4.400 dollari a 5.200.
Cosa è successo?
I tassi di cambio dipendono dai flussi e dagli scambi commerciali con l’estero e dagli interventi delle banche centrali. Dal punto di vista degli scambi commerciali sappiamo che la Russia è messa abbastanza bene con export superiori agli import ed esportatori che accumulano dollari e euro.
Con le riserve valutarie in dollari ed euro della banca centrale, la Russia non se la passa bene: queste sono state congelate. Anche volendo utilizzare le riserve in oro per sostenere il rublo, le attuali sanzioni impediscono alle istituzioni occidentali di transare con la banca centrale russa.
E allora chi sta vendendo dollari e comprando rubli per sostenere la moneta russa?
Il governo russo ha emesso un decreto che obbliga gli esportatori a convertire entro tre giorni l’80% dei dollari ed euro che ricevon Gli euro che PhosAgro - ad esempio - riceve per l’export di fertilizzanti devono essere venduti in cambio di rubli entro tre gironi (lo stesso vale ovviamente per Gazprom che esporta gas e per ogni altra azienda basata in Russia, incluse le controllate di gruppi europei).
Sono flussi ingenti che non potrebbero essere gestiti sul mercato (solo per il gas mandiamo ogni giorno 1 miliardo di euro in Russia e non c’è nessuno in grado di cambiare 1 miliardo di euro in rubli entro tre giorni), ma probabilmente vengono gestiti attraverso l’interazione fra la banca centrale russa (sanzionata) e banche russe risparmiate dalle sanzioni (Gazprombank). L’esportatore dà i suoi dollari rivenienti dall’export a Gazprombank in cambio di rubli, senza bisogno di andare sul mercato. Quando invece un importatore ha bisogno di euro o dollari per importare prodotti finiti dall’Occidente, si rivolge a Gazprombank o alla banca centrale russa, senza vendere rubli sul mercato aperto. Ricordiamo che Gazprombank può gestire dollari attraverso banche corrispondenti grazie ad alcune eccezioni contenute nelle sanzioni. Certo, Gazprombank non potrebbe transare in dollari con la banca centrale russa in teoria, ma suppongo che, attraverso un utilizzo attento di banche corrispondenti e banche cinesi, se la stiano cavando in qualche modo. In pratica la banca centrale russa, non potendo intervenire sul mercato, ha dato in outsourcing la gestione delle riserve valutarie al settore privato (sempre che una possa considerare Gazprombank un soggetto privato).
Ora pare che Putin voglia vendere il suo gas in rubli, ma la dinamica non cambia molto. In pratica il rublo, anziché essere sostenuto dalle aziende russe, sarà sostenuto da acquirenti europei che dovrebbero vendere euro e comprare rubli da Gazprombank (non la vedo una cosa semplice).
Il punto è che le sanzioni, così come strutturate, non stanno soffocando la Russia dal momento che lasciano aperta la loro principale fonte di risorse finanziarie: gas e petrolio. L’unico effetto delle sanzioni, finora, è stato quello di far incrementare il prezzo del petrolio e del gas, aumentando quindi i flussi di denaro verso la Russia. Come se ciò non bastasse, un po’ tutti i governi in Europa si stanno indebitando per sovvenzionare questi acquisti in qualche modo (ad esempio in Italia sono state abbassate le accise ed è di ieri la notizia che il Tesoro italiano stia considerando un’emissione straordinaria di Titoli di Stato per 8 miliardi di euro per far fronte ai sussidi straordinari all’energia).
Capisco la riluttanza nell’entrare in guerra per l’Ucraina, ma se davvero vuoi che le sanzioni abbiano un qualche effetto tangibile sul conflitto, forse dovresti essere pronto a essere più deciso e rinunciare al gas russo e a qualche punto di PIL. Inutile lodare il coraggio degli ucraini e sdegnarsi contro i missili russi se non siamo neanche pronti a sopportare 3 gradi in meno di termostato.
È primavera, comunque. Passato il freddo, il flusso di denaro verso la Russia diminuirà e potremo più serenamente estendere le sanzioni alle transazioni energetiche chiudendo il loophole Gazprombank.
Dopo aver scritto di come i mercati finanziari abbiano favorito la creazione a tavolino di società infrastrutturali a partire da qualsiasi tipo di business (ormai un po’ di tempo fa), vi lasciavo ripromettendomi di analizzare tale fenomeno in ambito bancario.
Le banche non si sono mostrate immuni rispetto a questa tendenza e, anzi, per puntellare i propri bilanci falcidiati da crediti in sofferenza e bassa profittabilità, hanno nel tempo creato e venduto società infrastrutturali a supporto del loro business tradizionale (sistemi di pagamento, BPO, gestione crediti, filiali, ecc.).
Nella maggior parte dei casi - come ho scritto nel #32 di Segui i Mangoddi - la creazione e la contestuale cessione di infrastrutture necessarie per il funzionamento di un’azienda è una strategia miope dettata da una logica finanziaria di breve periodo.
Nel caso di una banca, la questione merita maggiore attenzione essendo le banche aziende molto particolari.
A cosa serve una banca?
Storicamente le banche esistono per spostare denaro nel tempo e nello spazio.
Nel mezzo del millennio scorso, quando fiorivano i primi commerci, i mercanti avevano bisogno di spostare denaro da una parte all’altra dell’Europa e questo veniva fatto tipicamente presso “banchi” (da qui il termine banca) che sottoscrivevano lettere di credito accettate da una rete di banchi nelle principali città in cui avvenivano i commerci.
Con il crescere dei commerci e la necessità di effettuare investimenti produttivi, le banche si ritrovarono a spostare denaro nel tempo: alcuni avevano bisogno di scambiare flussi di reddito futuri con somme immediate per fare investimenti; altri scambiavano la loro liquidità di cui non avevano bisogno con flussi di reddito futuri. Nel mezzo c’è la banca.
Poi è arrivata la rivoluzione industriale, il capitalismo e le banche sono diventate creature molto complesse, ma di base continuano a spostare denaro nel tempo e nello spazio.
Nella maggior parte delle lingue la parola “banca” è un derivato della parola italiana “banco” e questo la dice lunga su come il business model di quest’attività sia universale e immutato. Piccola curiosità: i greci la chiamano Tràpeza (τράπεζα), che significa “tavolo irregolare” (vi siete mai chiesti perché universalmente l’icona della banca sia proprio un trapezio?).
Di quali infrastrutture ha bisogno una banca?
Pagamenti, tesoreria, clienti e beghe.
Pagamenti. Per spostare denaro nello spazio (il business dei pagamenti) hai bisogno di un’infrastruttura che si colleghi ai principali network indipendenti (Sepa, Visa, Mastercard, ecc.), di un sistema di emissione carte e di un sistema di accettazione (i POS o quello che in gergo viene chiamato merchant acquirer). Si tratta della versione moderna della rete di banchi utilizzata dai mercanti per pagare carichi di merce inviata da un paese all’altro.
Tesoreria. Per spostare denaro nel tempo hai bisogno di una tesoreria che gestisce quel magico processo con cui le banche trasformano raccolta a breve-medio termine (depositi vari e obbligazioni) in impieghi a medio-lungo termine (mutui, prestiti alle imprese, ecc.) guadagnando quello che viene chiamato margine di interesse, cioè la differenza tra quello che la banca riceve dai suoi impieghi a lungo e quello che paga su depositi e altre forme di raccolta a breve. Il business è semplice. Negli Stati Uniti riassumevano il business bancario con la formula 3-6-3: finanziati al 3%, presta al 6% e stai al campo da golf alle tre del pomeriggio. Una volta era così. Adesso tassi di interessi bassi e concorrenza hanno ridotto molto il margine di interesse.
Il cliente e il denaro. Ora che hai tutto il necessario per spostare denaro nel tempo e e nello spazio, ti mancano solo i clienti che ti portano denaro, i clienti che ti chiedono denaro e i clienti che hanno bisogno di spostare denaro. Storicamente acquisire un cliente è sempre stato un non-problema per la banca. Bastava piazzare una bella filiale in un quartiere residenziale, offrire un tasso ragionevole sui prestiti, un tasso mediamente competitivo sui depositi, qualche manifesto, servizi di pagamento e la gente faceva letteralmente la fila - letteralmente - per richiedere i tuoi servizi. C’era spazio per tutti e le filiali non bastavano mai. Anche il servizio clienti non è mai stato un grosso problema. La gente considera con più serenità un divorzio che il cambio di una banca (la raccomandata per chiudere il conto, le spese di chiusura conto, i RID da cambiare, le carte di credito da cambiare). Se il mercato della telefonia mobile con la number portability è stato sottoposto a una competizione feroce, il mercato dei servizi bancari si pone agli antipodi con una rigidità per il cambio di un istituto che anestetizza i livelli di churn.
Le beghe. Quando si maneggiano i soldi, ci sono sempre rischi da gestire (le beghe). Ci sono i rischi operativi: qualcosa può andare storto quando sposti denaro da una parte all’altra o perché qualcuno lo ruba (“la rapa in banca”), o perché utilizza i tuoi canali di pagamento impropriamente e tu incappi in qualche sanzione dell’antiriciclaggio. Ci sono i rischi di credito: qualcosa può andare storto quando sposti denaro nel tempo, perché qualcuno non può o non vuole ridarti quello che vuole. Le beghe vengono gestite da varie funzioni interne di back-office che supportano l’attività della banca senza grosse ricompense: se tutto va bene, sono una scocciatura che nessuno si fila. Se qualcosa va storto, sono i primi a saltare.
Quali infrastrutture posso vendere?
Come scrivevo qualche settimana fa, quando hai bisogno di ravvivare il prezzo delle azioni, fare cassa e pagare debiti, provi a creare un’infrastruttura attraente e venderla. Come si sono comportate le banche e come potrebbero comportarsi rispetto a questo fenomeno?
I pagamenti
Le banche per un lungo periodo hanno pensato fosse una buona idea vendere il loro business dei pagamenti. In fondo gran parte dei soldi che le banche hanno fatto storicamente è sempre arrivato dal margine di interesse e i servizi di pagamento erano solo il gancio per portare il cliente e i suoi soldi in filiale e vendergli altro.
È stata una buona idea? Non tanto.
Royal Bank of Scotland, prima della crisi post-Lehman e del salvataggio pubblico, aveva un business di pagamenti molto articolato chiamato RBS WorldPay. Come condizione del salvataggio pubblico, RBS fu obbligata a vendere il suo business di pagamenti. Lo comprarono i fondi di private equity di Advent e Bain Capital per 2 miliardi di sterline nel 2010. La società fu ribattezzata Worldpay e fu quotata 5 anni dopo per 6 miliardi di sterline (tre volte tanto). Due anni dopo Worldpay fu acquistata da Vantiv per 9 miliardi di sterline.
Nel 2015, sempre Advent e Bain Capital, cui si unì anche il terzo fondo gestito da Clessidra, hanno acquisito da un consorzio di banche popolari il business di pagamenti che gestiva CartaSì, all’epoca all’interno della società ICBPI, per due miliardi di euro. Anche Intesa Sanpaolo cavalcò il trend vendendo il suo business di pagamenti (Setefi) a ICBPI - dopo che era diventata dei private equity - per 1 miliardo. Oggi, ICBPI, ribattezzata Nexi, si è fusa con SIA e con Nets e vale 16 miliardi di euro in borsa. Recentemente Intesa Sanpaolo è tornata un po’ sui suoi passi. Quando ha venduto il business dei pagamenti di UBI (entrata nell’orbita di Intesa Sanpaolo) a Nexi, Intesa Sanpaolo ha reinvestito parte del ricavato - 640 milioni di euro - per acquisire una quota in Nexi del 10,4%. Oggi quella partecipazione vale il 40% in meno: sempre meglio non tornare sui propri passi quando il treno ormai è partito.
Se hai risorse e visione strategica per svilupparlo, un business dei pagamenti può fruttare parecchio, ma se la tua mente è altrove, meglio vendere. Oggi il mercato dei pagamenti è dominato da colossi come Nexi, Worldline e FIS (che nel frattempo si è pappata Worldpay) ed è difficile per una banca fare la differenza in questo settore. La vendita e valorizzazione delle infrastrutture di pagamento esistenti sembra dunque ormai una scelta obbligata. Nexi sta trattando per comprare il business di merchant acquiring di BPER Banca, Bnl ha venduto la sua Axepta a Worldline. Iccrea ha venduto al Fondo Strategico Italiano BCC Pay (precedentemente e più prosaicamente nota come Ventis). In Italia rimangono ancora autonome BancoBPM, UniCredit e Poste Italiane, ma penso sia solo questione di tempo prima che anche questi operatori cedano.
La tesoreria
Questo è il cuore della banca. Davvero è possibile valorizzare e vendere questa infrastruttura, la macchina del tempo dei mangoddi? Sì, anche perché ormai il modello 3-6-3 non funziona più. Con la concorrenza a livelli altissimi e i tassi a livelli ancora bassi, il margine di interesse si è ridotto tantissimo. I regolatori, inoltre, hanno introdotto requisiti patrimoniali sempre più stringenti per cui, a fronte di una redditività bassa, mantenere un bilancio pesante costa parecchio in termini patrimoniali. Tutte le banche negli ultimi anni stanno virando quindi verso un modello capital light in cui distribuiscono prodotti di altri su cui prendono commissioni, anziché prestare direttamente e impiegare il loro bilancio.
Ci sono tanti business model in ambito finanziario che fanno a meno di tutto lo sbattimento legato alla trasformazione finanziaria di duration brevi (i depositi) in duration medio lunghe (gli impieghi). In Italia abbiamo l’esempio mirabile che è Poste Italiane: un colosso che con la sua capillare rete di distribuzione e la sua tecnologia fornisce servizi transazionali (pagamenti) a quasi tutta la popolazione italiana. A Poste Italiane sarebbe anche piaciuto fare la banca, ma per alcune previsioni di legge non può dotarsi dell’infrastruttura necessaria per spostare soldi nel tempo. E cosa fai se un correntista ti chiede un mutuo o una cessione del quinto? Poste offre questi prodotti con il brand Poste Italiane, ma il prestito, il rischio e il margine di interesse va sui libri di alcune banche partner di Poste Italiane. Poste Italiane riceve una fee di origination per lo scomodo e fa contenta la sua clientela.
Le fintech amano fare disruption nel mondo finanziario, ma il loro modello organizzativo, almeno nella fase di start-up, non è compatibile con i requisiti patrimoniali e operativi di una banca vera e propria per poter prendere depositi e fare prestiti. Così molte fintech iniziano con modelli asset light, non dissimili da quello di Poste Italiane (pioniere suo malgrado e forse la più vecchia fintech del mondo).
LendingClub, fintech nata con l’ambizione di disintermediare le banche con una sorta di marketplace mettendo a diretto contatto investitori e debitori, ha fatto per lungo tempo affidamento su una serie di banche partner per emettere i prestiti e tenerli sui loro bilanci prima di venderli poi effettivamente agli investitori nella piattaforma. Nel 2021 l’italiana Credimi ha erogato oltre 400 milioni di euro di prestiti alle PMI senza avere né depositi, né un bilancio, ma finanziando il tutto tramite banche partner che comprano titoli di un veicolo di cartolarizzazione (Lumen SPV) in cui vengono impacchettati i prestiti originati sulla sua piattaforma.
Puoi fare a meno della tesoreria, ma, alla fine, è sempre meglio averne una.
Se ne è accorta LendingClub che a causa dei costi elevati delle proprie banche partner non riusciva mai a chiudere in utile, pur crescendo molto. Alla fine LendingClub si è comprata una piccola banca l'anno scorso e, a giudicare dai risultati del 4Q, ha fatto bene (qui un’interessante intervista al CEO Scott Sanborn, e qui sotto una slide con numeri abbastanza impressionante sul perché è sempre meglio avere una tesoreria).
Adesso che i tassi di interesse stanno salendo parecchio in un contesto competitivo reso più docile dal consolidamento degli ultimi anni, la tesoreria è un gran valore e tutto quel focus sui modelli capital light non appaiono più così intelligenti.
Le beghe
Nessuno vuole occuparsi delle beghe e le banche sono da sempre state maestre nel trasformare una bega in un’infrastruttura da vendere al miglior offerente. Dieci anni fa, quando l’IT non andava di moda e non esistevano le challenger bank, era tutto un fiorire di contratti di outsourcing in cui le banche prendevano il proprio dipartimento IT (un migliaio di persone), lo mettevano in una società con un contratto decennale e lo vendevano alla IBM o alla Accenture di turno. Nel 2013 UniCredit annunciò in pompa magna una partership con IBM con la creazione di V-TSservices (51% IBM e 49% UniCredit) in cui sono state piazzate 1000 persone e un contratto decennale “con l'obiettivo di ottimizzare la gestione delle infrastrutture per le società europee di servizi finanziari, grazie a nuovi servizi di Information Technology”.
V-TServices gestirà l'infrastruttura tecnologica di UniCredit, favorendo la trasformazione dei suoi asset IT, sulla base di un contratto decennale. Il risparmio netto atteso dall'istituto bancario è pari a 725 milioni di euro in dieci anni.
Se avete letto il nuovo piano industriale vi sarete accorti che adesso, per UniCredit, come per ogni banca, gli investimenti in tecnologia sono strategici per reggere il passo con i tempi e le challenger bank. Non so se certe affermazioni siano ad uso e consumo di PR e mercati o se nascondano della sostanza, ma tant’è. UniCredit ha dichiarato:
Finanzieremo questa trasformazione co un aumento della spesa complessiva, €2,8 miliardi totali nel periodo 2022-2024, con chiare priorità strategiche. Abbiamo in programma 2.100 assunzioni nette nel Digital & Data, per un totale di 3.600 nuove assunzioni nette, incluse le 1.500 nel business.
Tremilaseicento assunzioni! Ma che ne è del contratto decennale del 2013 con V-TServices, dei risparmi per 725 milioni e dei suoi 1000 dipendenti? Stando ad alcuni comunicati sindacali, i dipendenti sono ora 400, la società ha approvato esuberi di altre 100 risorse e con quel contratto il suo conto economico è perennemente i perdita.
Mi perdoneranno gli amici di UniCredit, ma è il primo esempio che mi è venuto in mente di un contratto di outsourcing di lungo periodo invecchiato male. C’è anche l’accordo decennale di Deutsche Bank del 2015 con HP che sembra sia stato sostituito dall’accordo con AWS (nel 2015 il cloud di Amazon non era così in voga).
La lezione è che le beghe di oggi, come l’IT, domani potrebbero diventare opportunità e leve strategica del business troppo importanti per essere esternalizzate in una infrastruttura con un contratto di lungo periodo.
Ci sono anche esempi virtuosi di beghe esternalizzate come il business process outsourcing, l’outsourcing della gestione di NPL (ma qui sono di parte) e la nascita di operatori di IT come Cedacri. Cedacri è un operatore nato dall’accordo tra alcune piccole banche (Banca Mediolanum, Cassa di Risparmio di Asti, Banco di Desio e della Brianza, Banca Popolare di Bari, Unipol Banca, Cassa di Risparmio di Bolzano, Banca del Piemonte e CREDEM). Essendo piccole e volendo mettere a fattor comune la loro spesa IT, quelle banche hanno costituito Cedacri che poi è diventata nel tempo un piccolo colosso nell’IT per le banche, venduto prima a FSI poi a Ion. Come per il caso Nexi/CartaSì (anche quella nata dalla collaborazione tra tante piccole banche), sembra che la soluzione ideale sia esternalizzare, condividere e mantenere un presidio come socio di minoranza lasciando che la società si sviluppi autonomamente e indipendentemente, non come società captive retta solo da un solo contratto di lungo termine.
Interessante in questo senso anche l’annuncio di Intesa Sanpaolo che costituirà la sua challenger bank interna affidandone l’infrastruttura non al classico colosso come IBM (ora Kyndryl) o Accenture, ma a Thought Machine, una start up che ha realizzato un innovativo motore di core banking nativo per il cloud. A differenza di altri progetti di challenger bank interne come buddybank (UniCredit) o Widiba (MPS) in cui queste competono sul mercato anche con la banca tradizionale, la challenger di ISP (che si chiamerà Isybank) avrà in dote tutti i clienti di Intesa Sanpaolo che attualmente utilizzano poco la filiale. A riprova della strategicità di questo processo, Intesa Sanpaolo ha investito 40 milioni di sterline in Thought Machine.
La banca del futuro
Da questa piccolo smembramento del business bancario, sembra chiaro che i diversi pezzi di una banca potrebbero avere tutti una vita propria e che solitamente prosperano quando hanno effettivamente vita propria. Tuttavia, le banche che hanno del tutto rinunciato alle loro infrastrutture se ne sono pentite. Forse l’approccio giusto è quello della tailandese Siam Commercial Bank (SCB). SCB ha investito con molta lungimiranza in diversi business fintech, nelle cripto e ha messo su un business di pagamenti tra i più efficienti in Asia. Il business della banca tradizionale va bene, ma gli investitori sembrano apprezzare di più il resto (a volte è solo una questione di equity story).
L’anno scorso SCB ha annunciato una riorganizzazione in cui i titoli della banca quotata sarebbero stati scambiati con una holding quotata chiamata SCBx sotto cui ci sarebbero state messe diverse società: SCB (la banca cash cow ora delistata), una serie di società prodotto che offrono servizi finanziari evoluti (pagamenti principalmente) e un gruppo di società attive in piattaforme e IT.
In pratica il business della banca tradizionale SCB diventerà solo una cash cow di un più ampio portafoglio di società che lavorano in sinergia sotto la guida strategica di SCBx.
Da seguire con interesse…