#32🚦🏗📊 Inflastrutture
Qualche settimana fa, scorrendo il budget 2022 di una società di cui sono consigliere, mi ha colpito leggere che il management preventivava un aumento del 4% del costo medio per dipendente. La causa di questo rialzo veniva individuata in quella che è la bestia nera di ogni banchiere centrale che abbia a cuore la stabilità dei prezzi: “wage inflation”. Il livello dei salari aumenta in linea con l’inflazione per mantenere stabile il potere d’acquisto dei lavoratori.
Il 2021 è stato l’anno del grande rimbalzo, del ritorno alla normalità e un po’ tutte le aziende avevano messo in conto la necessità di dover pagare di più per convincere la gente a tornare al lavoro dopo un anno di sussidi generosi e introiti finanziari sostenuti da mercati euforici. Questo ha inevitabilmente generato tassi di inflazione più alti rispetto al target senza che ciò preoccupasse più di tanto le banche centrali. Il fenomeno è stato infatti definito transitorio, da addebitare un po’ all’effetto base (il confronto con prezzi del 2020 depressi), un po’ al rimbalzo straordinario della domanda che ha incontrato un mercato dell’offerta ancora ingessato da tutta una serie di fattori (tra cui i vari lockdown a intermittenza che perturbano i cicli produttivi). Finito l'effetto base e stabilizzandosi domanda e offerta, tutto sarebbe rientrato nella norma.
E invece no.
Oggi, anno domini 2022, l'inflazione è sopra il 5% in Europa e sopra il 7% negli Stati Uniti. I dipendenti e gli operatori economici si ritrovano a negoziare in un contesto in cui tutto costa di più. Titoli di stampa ed evidenze aneddotiche hanno prepotentemente riportato sulla scena l’inflazione come elemento contrattuale importante dopo più di dieci anni di deflazione. Tra luce e gas, una famiglia tipo pagherà mediamente 1.200 euro in più rispetto all’anno precedente (questo anche dopo gli interventi messi in campo dal governo per calmierare gli aumenti eliminando la spesa per oneri di sistema dalle bollette). Il prezzo di 46 centesimi per kWh è più del doppio rispetto alla media degli ultimi otto anni e al prossimo aggiornamento trimestrale il prezzo sarà destinato a salire ulteriormente essendo direttamente collegato al costo di gas e petrolio che tra gennaio e febbraio è salito di un altro 20%. Qui sotto l’andamento storico del prezzo al kWh fissato dall’ARERA: come vedete, nell’istogramma del primo trimestre 2022 manca il “mattoncino” in verde scuro che per quest’anno sarà gentilmente offerto dallo Stato con un modico costo di 6 miliardi.
A luglio avevo pagato 8,90 euro per 5 litri di AdBlue su Amazon. Oggi la stessa confezione costa 19,50, sempre su Amazon (tra l’altro il prodotto è spesso indisponibile). l’AdBlue è l’additivo che serve a far funzionare i motori diesel Euro6 che compongono la quasi totalità della flotta di TIR in Europa e circa la metà delle autovetture in Italia. L’AdBlue è un prodotto di scarto che si ottiene dalla produzione di fertilizzanti a base di urea che, a sua volta, si ottiene processando chimicamente gas metano. Con il prezzo del gas naturale alle stelle per i noti eventi geopolitici (ma non solo), sale quindi il prezzo dei fertilizzanti a base di urea, sale il prezzo dell’AdBlue e, probabilmente, salirà anche il prezzo del cibo (che in ultima istanza si fa con materie prime che necessitano di essere coltivate mediante l’uso di fertilizzanti). Come se non bastasse, la Russia, che è uno dei maggiori produttori di fertilizzanti, ha imposto uno stop all’esportazione verso l’Europa fino ad aprile. E non aiuta il fatto che Eurochem, seconda società europea di fertilizzanti (dopo la norvegese Yara), sia in mani russe.
Tout se tient. Tutto manca. Tutto sale.
La settimana scorsa l’asset manager abrdn ha dovuto rinviare un’assemblea degli azionisti convocata per l’approvazione dell’acquisizione di Interactive Investor (un’operazione da 1,5 miliardi di sterline) perché non è riuscito a trovare abbastanza carta per stampare la documentazione necessaria (sì, pensateci sempre prima di stampare un’email!).
Per ora non si è ancora tornati a parlare in maniera diffusa di “salari reali”, cioè del poter d’acquisto dei salari al netto dell’inflazione, ma quando gli aumenti delle materie prime si trasferiranno in maniera più marcata sul resto dei beni di consumo (e lo stanno già facendo), la contrattazione salariale diventerà più tesa.
Se i salari aumentano per l’inflazione, i salari spingeranno ulteriormente al rialzo l’inflazione in una spirale che sa molto di anni ‘70 e che le banche centrali faranno di tutto per evitare. Le aziende che potranno permetterselo proteggeranno i margini aumentando i prezzi di vendita (contribuendo a far salire ulteriormente l’inflazione), altre che operano in mercati con meno domanda e più competizione cercheranno di mantenere stabili i prezzi rinunciando al proprio margine.
Amazon nella sua ultima trimestrale ha annunciato che per far fronte al forte aumento dei costi del lavoro alzerà il costo dell’abbonamento ad Amazon Prime degli Stati Uniti da 119 a 139 dollari l’anno. Il mercato ha apprezzato facendo salire il titolo del 15% dopo la pubblicazione della trimestrale. È quello che si chiama “Pricing power”.
LVMH ha annunciato questa settimana che aumenterà mediamente del 20% i prezzi delle sue borse:
The price adjustment takes into account changes in production costs, raw materials, transportation as well as inflation
La mossa di LVMH sembra piuttosto opportunistica dal momento che il costo della materia prima e del trasporto in una borsa da 5.000 euro non dovrebbe incidere poi tanto.
Se invece lavori in un’azienda che opera in un settore più competitivo e meno alla moda come quello degli pneumatici, ti ritrovi nella spiacevole situazione del CFO di Goodyear che ha fatto crollare del 20% in un giorno il titolo della società che dirige spiegando che il flusso di cassa di 1 miliardo realizzato nel 2021 sarebbe stato azzerato nel 2022 dall'inflazione:
The company is targeting 2022 free cash flow around breakeven. That compares with 2021 cash flow from operating activities of $1.06 billion in 2021. FCF guidance takes into account increases in raw material costs, and inflation in wage, benefit, transportation and energy costs at levels beyond what we could offset with efficiency and pricing.
Ci sono due modi per le banche centrali di interrompere questa spirale negativa di prezzi e salari al rialzo:
1) Con le parole. A volte quello che dici ha un impatto e la mera aspettativa che tu faccia qualcosa, se sei una banca centrale, è sufficiente a muovere i mercati senza che tu abbia effettivamente bisogno di fare qualcosa. È famoso il “whatever it takes” di Draghi: tre parole che bastarono a spegnere la speculazione sui titoli di Stato italiani senza che la BCE dovesse fare poi tanto. Sono state meno efficaci le rassicurazione sulla temporaneità dell’inflazione che hanno avuto solo l’indesiderabile effetto di minare la credibilità delle banche centrali.
2) Raffreddando l’economia. Se i prezzi salgono perché c’è molta domanda, bisogna raffreddare la domanda tramite politiche monetarie e fiscali restrittive. “Raffreddare la domanda” è un eufemismo tecnico per definire politiche monetarie e fiscali volte a rallentare la crescita del PIL.
Per il momento il mercato sta dando molto credito a un rialzo dei tassi di interesse. Se salgono i prezzi, salga anche il costo del denaro. A luglio l’Eurirs a 30 anni, il parametro utilizzato dalle banche per la definizione di un tasso fisso trentennale, è passato dallo 0,20% allo 0,90%. Su un mutuo da 300.000 fanno 2.100 in più di interessi l’anno. È straordinaria la velocità con cui sono aumentati i tassi, anche se non si tratta ancora di livelli record.
Negli ultimi cinque anni, se si eccettua la parentesi del primo governo Conte, lo Stato italiano ha sempre pagato interessi negativi per indebitarsi a due anni (in pratica doveva restituire meno di quanto riceveva in prestito). Negli ultimi due mesi il costo dell’indebitamento a due anni per lo Stato è passato da -0,50% a +0,25%. Il costo dell’indebitamento a dieci anni è invece passato dallo 0,6% dell’estate a quasi il 2% di ieri. Dopo anni di largesse propiziata dalle banche centrali, lo Stato, come famiglie e imprese, pagherà di più per indebitarsi e tornerà sicuramente una certa attenzione albudget che con la pandemia si era dimenticata. Qui sotto il grafico che mostra il rendimento storico pagato dai BTP decennali.
Una maggiore attenzione alla spesa pubblica e un minore potere d’acquisto delle famiglie non lasciano presagire un avvenire florido per il PIL.
Finché questo tipo di inflazione non provoca effetti recessivi sull’economia (trasformandosi in stagflazione), un aumento generalizzato dei prezzi potrebbe anche essere positivo per le finanze pubbliche dei paesi più indebitati come l’Italia. Quando si calcola il rapporto tra debito/PIL, il numeratore è un valore che non viene impattato dall’inflazione, mentre invece il PIL nominale aumenta oltre che per la crescita economica (la crescita reale) anche per un effetto prezzi. Se l’inflazione media degli ultimi dieci anni si fosse mantenuta a un livello medio del 2% (anziché dell’1,2%), il rapporto debito/PIL dell’Italia oggi sarebbe del 140% anziché del 152%. Senza contare che, grazie al fiscal drag, l’inflazione provoca un considerevole vantaggio per lo Stato trascinando i redditi medi verso scaglioni con aliquote più alte senza che vi sia stato un vero aumento dei salari reali.
La situazione attuale ricorda per certi versi il 2008, ma in peggio. Prezzi delle materie prime alle stelle. Esuberanza sul mercato immobiliare. Tassi di interesse in continua ascesa che rincorrono un’inflazione sopra i target delle banche centrali. In quel caso l’aggiustamento fu brusco e arrivò per due incidenti chiamati Subprime e Lehman Brothers. Si spera che questa volta sia più soft, ma parliamo sempre di un aggiustamento.
E dopo questo lungo excursus sull’inflazione, parliamo delle società infrastrutturali che sono state a lungo utilizzate per proteggere gli investimenti dall’inflazione.
Le infrastrutture di una volta
Fintech, BigData e AI sono mode relativamente recenti e definizioni fumose da cui ogni società aspira di essere abbracciata per ravvivare la propria valutazione con un pizzico di irrazionalità. Sono mode che vanno e che vengono (oggi ad esempio non so quanto convenga essere una fintech). Una moda intramontabile, ormai da più di dieci anni, invece, è quella delle infrastrutture che si stanno affermando come un’asset class attraente e secolare alla stregua dell’immobiliare. Se non sei una fintech, tanto vale essere un’infrastruttura (vero Nexi/SIA?). Se ti è andata male come società di telecomunicazioni, tanto vale rivendersi come infrastruttura (vero Telecom?).
Eppure non è stato sempre così. Vediamo come è andata, come andrà e come la crescente infrastrutturalizzazione (lo so è un termine orrendo) di qualsiasi cosa cambierà il modo di fare business.
C’era una volta un’asset class noiosa chiamata “infrastructure”. Era per lo più costituita da società monotone che si occupavano di cose grosse come aeroporti, autostrade e reti di distribuzione. Operando in regime di monopolio naturale, i ricavi di una società infrastrutturale sono generalmente regolati da un’authority che ne determina tariffe al pubblico e investimenti parametrando le prime a un rendimento ragionevole del capitale sui secondi. Si tratta di società noiose perché per certi versi assimilabili a titoli obbligazionari: upside limitato dal regolatore e downside limitato dalla condizione di monopolio naturale (ci saranno sempre aerei che utilizzeranno gli aeroporti, macchine sulle autostrade e flussi di gas metano che passano per i gasdotti della penisola).
La Treccani definisce così un’infrastruttura:
In genere (in contrapp. a sovrastruttura), struttura o complesso di elementi che costituiscono la base di sostegno o comunque la parte sottostante di altre strutture; anche in senso fig.: le i. di una società. Con sign. specifico, il complesso degli impianti e delle installazioni occorrenti all’espletamento dei servizi ferroviari, aeroportuali, ecc.; i. urbane, la rete dei servizî pubblici necessari allo sviluppo urbanistico.
Io avrei una definizione molto più concisa e più focalizzata sul business:
Una società infrastrutturale è una società con notevole quantità di clienti, con un forte potere di prezzo, senza il bisogno di fare marketing
Le infrastrutture hanno cominciato ad acquisire un certo appeal quando dal 2001, dopo la crisi delle dot.com, le banche centrali di tutto il mondo hanno avviato un ciclo di ribassi dei tassi che, ad eccezione di una breve parentesi tra 2006 e 2008, si sarebbe portato avanti per vent’anni.
Il regolatore ti garantisce un ritorno minimo del 7-8% per almeno una decina di anni e tu puoi finanziarti al 2-3%. Non è un mistero che l’asset class sia diventata “di moda”.
Tutti vogliono essere un’infrastruttura
Tra il 2007 e il 2022 il multiplo EV/EBIT di Terna (la società che gestisce la rete di trasmissione elettrica) è passato da 11x a 21x (il suo market value è passato da 7 miliardi a 23 miliardi). Lo stesso multiplo di Snam Rete Gas (la società che gestisce la rete di trasmissione del gas) nello stesso periodo è passato da un 9x a 21x con un Enterprise Value passato da 9 miliardi a 30 miliardi. E non è che in questo periodo i consumi elettrici o di gas siano aumentati in modo pazzesco, anzi.
In ogni tipo di business c’è un’infrastruttura - più o meno integrata - che la sostiene. I negozi fisici sono l’infrastruttura di una rete di supermercati. I magazzini sono una delle infrastrutture di Amazon. La tesoreria è l’infrastruttura principale di una banca.
Di fronte a un apprezzamento tanto forte del mercato per l’asset class infrastrutturale, qualcuno deve aver pensato che sarebbe stata una buona idea, finanziariamente parlando, far emergere il valore dell’infrastruttura societarizzandola tramite contratti di lungo periodo con la società all’interno del quale quell’infrastruttura si è sviluppata.
Così è nata Inwit dallo spin off dell’infrastruttura mobile di Telecom Italia Mobile. Così è nata Rai Way dallo spin off dell’infrastruttura che permette alla Rai di trasmettere i suoi segnali. Investire in una società come Rai Way, con un contratto di servizio garantito, è molto più rassicurante che investire in una società come la Rai che deve competere per guadagnare inserzioni pubblicitarie ed è esposta a tutti i rischi di mercato che ne conseguono. Così è nata IGD dal conferimento di parte del patrimonio immobiliare di Coop Adriatica (ora Coop Alleanza 3.0) e di Unicoop Tirreno. Le Coop non si sognerebbero mai di aprire il capitale della grande distribuzione ad altri e non sarebbe così attraente il business di una cooperativa, ma per reperire risorse finanziare possono estrarre valore dalla “infrastruttura” creata grazie a quel business. Inwit quota ad un multiplo EV/EBITDA superiore a 18x mentre la società con cui ha il suo principale contratto ha un multiplo EV/EBITDA di 5x.
L’ultima idea - chi segue questa newsletter lo sa - è quella di dividere Telecom Italia in due: una NetCo dove mettere la rete e una ServiceCo dove mettere i contratti attivi con i clienti. La ServiceCo pagherebbe ovviamente alla NetCo un affitto per l’utilizzo delle rete che diventerebbe a questo punto un’infrastruttura aperta a tutti gli operatori.
Non so voi ma la ServiceCo sembra avere in questo contesto una connotazione negativa come una sorta di bad bank in cui si vuole mettere la parte della società con meno valore.
Ma è una mossa intelligente nel lungo periodo?
Il cliente ha sempre ragione (e valore)
Competere e parlare con il cliente è un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo. E alla fin fine è un lavoro che paga.
Amazon ha creato dal nulla due infrastrutture pazzesche (Amazon Web Services e i fulfillment center) grazie ai milioni di clienti che è riuscita ad attrarre su quella che era partita come una libreria online. Spotify ha creato un’infrastruttura molto efficiente per la distribuzione di musica e contenuti audio grazie alla sua capacità di attrarre clienti con un’offerta freemium all’epoca molto innovativa. Seppur integrate verticalmente, sia Spotify sia Amazon prestano la loro infrastruttura a terze parti guadagnandoci anche un bel po’ e non si sognerebbero mai di vendere quell’infrastruttura a meno che non fossero obbligate dall’antitrust.
In Italia gli operatori di gas ed elettricità sono stati obbligati a separare (e in alcuni casi vendere) reti, centrali e società di distribuzione. Oggi per la fornitura di luce e gas posso scegliere fra una cinquantina di operatori. L’elettricità e il gas mi arriveranno attraverso la stessa infrastruttura (la rete di trasmissione e la rete di distribuzione che raggiunge il mio contatore) e non ho modo di sapere chi abbia prodotto l’elettricità o il gas che sto consumando. Il fornitore, d’altro canto, comprerà l’elettricità da una società di generazione (del suo gruppo, se è un fornitore che fa parte di un gruppo integrato) e pagherà il pedaggio alle reti di trasmissione e distribuzione. Avrà un piccolo margine per remunerare lo sbattimento di avermi conquistato come cliente e gestire il rapporto commerciale con me (cioè fatturare, incassare e rispondere alle mie telefonate quando ho un problema).
In un mercato super competitivo dove i prezzi all’ingrosso dell'elettricità e del gas sono uguali per tutti, i margini sono bassissimi a meno che non si vogliano prendere dei rischi sui contratti derivati e offrire prezzi fissi ai consumatori (alcuni l’hanno fatto e sono saltati).
Per la telefonia, se dovesse andare in porto il progetto rete unica avverrà un po’ lo stesso (al netto di alcune differenze tecniche). A prescindere dall’operatore che sceglierò per la banda larga, i miei dati passeranno attraverso la stessa infrastruttura e i prezzi saranno più o meno allineati al prezzo wholesale dell’infrastruttura. La NetCo avrà guadagni stabili e un valore alto, mentre la ServiceCo si ritroverà a competere in un mercato affollato con pochi elementi di differenziazione.
Come mi differenzio e come sopravvivo in un mercato liberalizzato come quello dell’elettricità o quello della telefonia che sarà? Qualità del servizio clienti, offerte innovative, offerte in bundle e marketing, tanto marketing (c’è un motivo se da quando è partito il mercato libero sull’elettricità ricevete una telefonata al giorno da parte di operatori di telemarketing che vi invitano a controllare la bolletta).
Tanto volume e pochi margini. Bisogna essere grandi. E così sono partite le prime mosse di consolidamento. Iliad ha provato a comprarsi Vodafone Italia e, dopo il rifiuto di quest’ultima, potrebbe ora essere interessata alla ServiceCo che nascerà da Telecom Italia. Linkem ha staccato anche lei la parte retail per combinarla con Tiscali. Così gli azionisti di Linkem avranno a disposizione da una parte una bella società infrastrutturale, dall’altra una meno attraente società che si prende la bega di gestire i clienti (Linkem Retail + Tiscali) e pagare l’affitto per l’uso della rete Linkem.
Il problema di questa moda delle infrastrutture create a tavolino è che quelle parti così bistrattate chiamate ServiceCo o Retail Company alla fine tenderanno ad aggregarsi e ad ottenere condizioni migliori dalla NetCo, laddove non c’è un regolatore a dirigere la dinamica dei prezzi. Fossi in Inwit (che raggruppa le torri di Vodafone Italia e Tim) sarei molto preoccupato dalle mosse di Iliad su Vodafone Italia e/o la ServiceCo di Telecom.
Non solo. Un mercato fatto di una grossa infrastruttura e delle società retail con margini risicati lascia scoperto il fianco all’arrivo di operatori ancora più grossi di quelli che potrebbero nascere da operazioni di consolidamento.
Alcuni lettori l’avevano già intuito nel numero scorso. Gli operatori più bravi nel contatto con il cliente, nel marketing e nelle offerte in bundle sono gli over the top (Apple, Google, Facebook, ecc.) che, dopo aver prosperato scorrazzando per l’infrastruttura delle TelCos, si mangeranno anche i clienti delle TelCos offrendo servizi di connessione in banda larga, telefonia mobile e luce targati Amazon/Facebook/Google con qualche servizio innovativo di domotica, intelligenza artificiale e chi più ne ha più ne metta.
In un contesto in cui i tassi di interessi stanno salendo, come abbiamo visto all’inizio di questo numero, le infrastrutture potrebbero diventare finanziariamente non così interessanti. Questo potrebbe, tutto sommato, essere un bene spingendo il management delle società a creare valore nel lungo termine curando il rapporto con i clienti anziché beneficiare di operazioni finanziarie strategicamente miopi.
La prossima settimana, tempo permettendo, mi piacerebbe parlarvi di come anche nel sistema bancario stiamo assistendo, con dinamiche un po’ diverse, a una separazione tra infrastruttura e rapporto con il cliente.
Buon weekend!