#30 💡💃Si esce poco la sera
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Come sta andando il 2022? Così così, dai.
Gira una brutta influenza. Stando ai dati che Google elabora ogni settimana monitorando milioni di smartphone Android, rispetto alla stessa settimana del 2020 (quando ancora il “Coronavirus” era un qualcosa di prettamente cinese che mai pensavamo avrebbe scavalcato le inespugnabili frontiere del mondo occidentale), i luoghi legati a retail & recreation (negozi, cinema, teatri, musei, etc.) hanno subito un calo di visite pari al 27%. Un’analoga perdita di visitatori l’hanno registrata gli uffici ("Workplaces”), mentre il calo di visitatori è ancora più accentuato per il trasporto pubblico (stazioni, aeroporti, metropolitane, ecc.) con un -30%. Ne escono bene farmacie (le file per i tamponi), parchi (“vediamoci all’aperto però”) e case con incrementi fra il 3% e il 6%. Tutto questo in un momento in cui tutta l’Italia era in zona bianca o gialla, cioè senza nessuna restrizione.
Trenitalia ha cancellato circa il 10% dei convogli regionali per assenze di personale e anche negli Stati Uniti diverse compagnie aeree hanno cancellato migliaia di voli per malattie del personale di bordo. I passeggeri totali transitati per l’aeroporto di Heathrow nel 2021 sono stati inferiori del 10% inferiori rispetto a quelli del 2020 (quando ci sono stati prolungati lockdown) e del 25% rispetto ai livelli del 2019. Non va meglio in Italia. A novembre 2021 i passeggeri totali transitati a Fiumicino e Ciampino erano 1,7 milioni, meno della metà di quelli a novembre 2019 (non sono ancora disponibili i dati di dicembre che temo non saranno migliori, anzi).
Con i vaccini è finito il tempo dei lockdown, ma - per dirla con le parole di Dalla - qualcosa ancora qui non va.
Sembra strano, ma credo che oggi non poche aziende stiano rimpiangendo economicamente il lockdown del 2020, i ristori e la cassa integrazione, di gran lunga preferibili rispetto alle difficoltà di rimanere aperti dovendo operare in un contesto complesso (greenpass, sanificazioni, personale in quarantena, ecc.) e sostenere costi con una domanda ancora fiaccata dall’incertezza (il buonsenso o la paura delle persone - giudicate voi dove prevalga l’uno sull’altro - arrivano prima dei DPCM).
Il contesto macroeconomico si sta facendo molto meno accomodante. Politica fiscale e politica monetaria hanno continuato a stampare moneta e sussidi a pieno regime per tutto il 2021, anche in presenza di una ripresa marcata della domanda, alimentando ogni tipo di tensione sui prezzi dei beni e degli asset finanziari. Come Zangrillo continuava a dire che il virus era, se non clinicamente morto, diventato buono, i vari banchieri centrali erano intenti a rassicurare i mercati sulla transitorietà dell’inflazione. L'aumento dei prezzi, invece, come il SARS-CoV-2, ci accompagnerà per tutto il 2022 (e oltre). Di qui un brusco cambio di regime della politica monetaria negli Stati Uniti con il mercato che oggi prezza un numero di incrementi dei tassi di interessi non inferiore al numero di dosi di vaccino che sarà obbligatorio ricevere (sì, quattro - chissà se la chiameranno quarta dose o second booster, che suona più rassicurante), quando tutti si aspettavano al massimo tre aumenti (e tre dosi).
Per darvi un’idea dell’accelerazione improvvisa dei tassi di interesse, a fine 2022 diverse banche d’affari prevedevano un rendimento del bund decennale a -0,05% (è stato fra -0,30% e -0,50% per tutto il 2021). Ieri il livello del bund decennale era a -0,03% e sembra ora sempre più plausibile che il 2022 possa decretare la fine dei tassi negativi per i titoli di Stato: un’ottima notizia per le banche che finalmente possono tornare a veder crescere la voce “margine di interesse” del loro conto economico, un po’ meno per imprese, famiglie e governi che dovranno fare a meno della manna dei tassi bassi in un momento di incertezza per l’economia.
Se febbraio si lascerà alle spalle Omicron senza ulteriori ondate, l’economia tornerà a crescere a livelli pre-COVID e non sarà un problema abbandonare il regime di tassi negativi. Se, al contrario, continueremo a vivere in questo limbo tra booster e quarantene, le banche dovranno affrontare quello che - non ricordo più quale economista - ha definito un piatto riscaldato male al microonde: troppo freddo all’interno e bollente in alcune parti esterne. La parte fredda è la domanda depressa in diversi settori dell’economia come retail & recreation, la parte calda è quella dell’inflazione che fa crescere i prezzi in presenza di una politica monetaria accomodante e di un’offerta di beni limitata da una serie di fattori esogeni (logistica ingolfata, carenza di materie prime, lavoratori in quarantena, ecc.).
E poi ci sono le bollette che saranno sempre più care…
Un inizio elettrizzante
Se non avete vissuto su un’isola deserta, saprete che elettricità e gas costeranno il 50% in più a partire dal 2022. Essendo l’elettricità uno dei principali input produttivi di molti settori, aspettatevi due scenari: o i margini di molte società saranno compressi, o queste scaricheranno gli aumenti sui consumatori deprimendone i consumi. In entrambi i casi l’effetto per l’economia sarà negativo.
Non è questa la sede per infilarci in complesse discussioni sulla dipendenza energetica dell’Europa dal gas russo, sulla “greenflation” o sulle rinnovate simpatie che attira il nucleare ogni qualvolta ci accorgiamo che rinnovabili e gas naturale pesano troppo sul portafoglio. Qui seguiamo in mangoddi, come al solito.
Il costo dell’elettricità aumenta perché sul mercato aumenta il costo delle materie prime con cui viene prodotta (gas e petrolio). In Italia, vigono due regimi: il mercato tutelato in cui il prezzo dell’energia viene determinato dall’ARERA trimestralmente sulla base del prezzo del petrolio e del gas naturale (è di questo aumento che parlano i media quando dicono “dal 1/1/2022 l’elettricità aumenterà del 50%”). Poi c’è il mercato libero in cui i distributori sono liberi di fare i loro prezzi, che solitamente sono comunque allineati a quelli del mercato tutelato. Le differenze principali tra mercato libero e mercato tutelato riguardano le modalità di indicizzazione e la possibilità di bloccare il prezzo per un certo periodo (di solito per i primi 12 mesi del contratto). I distributori subiscono l’aumento del costo di approvvigionamento di energia sul mercato all'ingrosso e nella maggior parte dei casi lo scaricano - sebbene con un certo sfasamento temporale per loro costoso - sul consumatore senza grossi vantaggi economici.
Un distributore di energia elettrica si approvvigiona di energia elettrica comprandola sul mercato e rivendendola ai suoi clienti. Talvolta è un distributore di un gruppo integrato (come Enel) che l’energia da rivendere ai suoi clienti la compra internamente da società del gruppo di power generation. A seconda del suo profilo speculativo, il distributore di energia (ma anche il produttore) può essere più o meno coperto per un certo periodo di tempo fissando in anticipo il prezzo del suo intero fabbisogno energetico e/o il prezzo del suo output tramite contratti a lungo termine o derivati.
Se si copre interamente (fully hedged) non sarà impattato da eventuali rialzi sul prezzo delle materie prime, ma al tempo stesso non potrà beneficiare di un calo delle materie prime avendo di fatto fissato in anticipo il suo margine. Se è un po’ più speculativo, invece, può rimanere scoperto per un certo quantitativo di energia da fornire ai propri clienti (a cui vende un prezzo bloccato per un certo periodo).
Ma cosa succede quando i prezzi aumentano molto velocemente da 10 dollari a 50 dollari in un mese? (vedi il grafico sotto). La volatilità fa male a tutti.
I distributori che non erano completamente coperti saltano per aria (altro che guadagni delle avide società energetiche). Nel Regno Unito, dove il mercato è iperliberalizzato con una pletora di operatori medi che competono, sono quasi 30 gli operatori che hanno interrotto le forniture ai clienti fallendo sotto la pressione di prezzi di vendita verso i clienti fissati per un anno e fabbisogni di energia all'ingrosso o materie prime non completamente coperti divenuti troppo care in pochissimo tempo. In Italia Green Network ha fatto richiesta di concordato preventivo e Bloomberg oggi parla di altri sei piccoli operatori (i-Energy ad esempio) che hanno interrotto le forniture ai loro clienti.
Anche gruppi più grandi e strutturati che si sono coperti completamente stanno avendo qualche problema. Uniper in Germania ha una capacità di generazione da centrali a gas di circa 16 GW e prudenzialmente si copre dal rischio prezzo vendendo in anticipo, con contratti forward, gran parte della sua capacità di generazione e comprando in anticipo il gas con contratti di lungo termine. Ciononostante Uniper ha dovuto richiedere un finanziamento di 11 miliardi di euro (11 miliardi di euro! Il 25% della sua capitalizzazione di mercato) solo per far fronte ai margini di garanzia dei suoi contratti derivati con cui si copre dal rischio di prezzo di vendita. Avendo venduto in anticipo energia elettrica a un prezzo prefissato sul mercato per coprirsi dalle fluttuazioni di prezzo, Uniper ha una perdita legata a quei contratti derivati ora che i prezzi dell'energia sono saliti, ma dovrebbe compensarla con i prezzi più alti dell’energia venduta ai propri clienti (se questi effettivamente la pagheranno).
A giudicare dall’andamento dei diversi titoli energetici in borsa negli ultimi sei mesi, si nota che produttori e distributori di elettricità (Enel, Acea, ED F) se la passano piuttosto male avendo lasciato tra il 10% e il 14% del loro valore, mentre gli operatori più esposti sul cosiddetto upstream (Eni) stanno facendo bei guadagni.
La risposta di molti governi - compreso il nostro - è stata quella di contenere in qualche modo gli aumenti. In qualche modo significa: o ristorando con soldi pubblici i consumatori o calmierando i prezzi. Nel primo caso lo Stato si svena per sterilizzare l’effetto dei prezzi per i cittadini. In Francia hanno proposto lo “scudo tariffario” con cui lo Stato conterrà gli aumenti per i clienti fino al 4% facendosi carico del resto che ammonta più o meno a un esborso di 14 miliardi di euro (una finanziaria). Nel secondo caso, lo Stato trasferisce sui distributori l’onere dei maggiori costi energetici imponendo prezzi calmierati e riducendone il margine, se non mandandoli in perdita (cosa che non so quanto sia auspicabile visto quanto successo nel Regno Unito e quello che sta succedendo in Italia).
Mi ha colpito una frase del presidente del consiglio Draghi sull’argomento:
La via del sostegno governativo è importante, ma non può essere l’unica. – ha rimarcato il Premier – Occorre chiedere a chi ha fatto grandissimi profitti dagli aumenti nel prezzo del gas di condividerli con il resto della società
Come si condividono i profitti? Spontaneamente facendo beneficienza o coattivamente tassando di più le compagnie energetiche. Ci avevano provato nel 2008 con la cosiddetta “Robin Hood Tax”, un’addizionale sull’IRES del 6,5% per le compagnie energetiche che fu poi dichiarata incostituzionale nel 2015.
È banale dirlo, ma se hai rinunciato al nucleare, hai puntato tutto sul gas naturale che arriva da un unico paese governato da un regime autocratico, hai tassato il carbone e puntato tutto sulle rinnovabili, non si tratta di condividere i grandissimi profitti, ma di sostenere gli ingenti costi. Vogliamo tassare con un’addizionale IRES gli impianti di fotovoltaico e idroelettrico che stanno facendo utili straordinari in questo periodo? Bene, ma non ci aspettiamo che poi gli investimenti in quel settore aumentino e che l’obiettivo della transizione energetica verso fonti sostenibili divenga meno arduo da raggiungere. Vogliamo tassare ENI che sta facendo grandi profitti dai suoi giacimenti di gas metano? Bene, ma non aspettiamoci che altre aziende italiane investano nel settore consentendoci di ridurre la nostra dipendenza da Gazprom e altre società straniere.
Il deal sotto l’albero
Non se n’è parlato molto perché il deal è stato annunciato il 24 dicembre quando eravamo tutti intenti a preparare il cenone o a fare la coda per l’antigenico, ma quando la prima banca e il primo operatore energetico del paese si mettono insieme in un deal da 1,4 miliardi per comprare la prima rete di prossimità del paese, vale la pena soffermarci a fare qualche riflessione.
Cos’è Mooney?
Hai presente quei terminali con cui il tabaccaio, il giornalaio e il barista ti fanno giocare la schedina dell’Enalotto o del Lotto? Come avrai potuto notare, negli ultimi vent’anni gli operatori che gestivano quei terminali (Sisal e Lottomatica) hanno incrementato notevolmente le operazioni che era possibile far transitare attraverso quei terminali: bollettini postali, bollo auto, bollette, ricariche telefoniche, canone, ecc. E così Sisal ha costituto il suo IMEL chiamato Sisal Pay (Istituto di Moneta Elettronica). Così ha fatto Lottomatica creando LISPay.
Il business model è piuttosto semplice: installare il terminale, farsi pagare una commissione di 1-2 euro per ogni transazione dall’utente che utilizza il servizio in tabaccheria e lasciare all’esercente 20-30 centesimi. Il business non solo è molto redditizio ma rappresenta una evidente soluzione win-win per i tabaccai, che, oltre a prendere la commissione, attraggono clienti in tabaccheria compensando il calo dei ricavi da vendita di tabacco. Le reti dei tabaccai, per la loro capillarità, sono dunque state trasformate in efficientissime e ubique reti di prossimità in grado di digitalizzare e arrivare lì dove nessuna filiale o ufficio postale era mai giunto prima.
Dal tabaccaio alla banca
Nel 2016 Intesa Sanpaolo si interessò molto a queste reti e pensò bene di poter compensare la chiusura delle filiali, i cui costi di gestione ai tempi dell’home banking stavano diventando esosi quanto anacronistici, con l’utilizzo delle tabaccherie. Comprò così Banca ITB (un istituto bancario dedicato ai tabaccai) per 170 milioni di euro con l’obiettivo di trasformarla nella sua personale rete di prossimità, vendendo prodotti finanziari e servendo i suoi clienti attraverso quel canale. ITB fu poi ribattezzata “Banca 5”. In pratica i tabaccai venivano usati se non come degli sportellisti, come degli ATM viventi. Insieme ai terminali di SisalPay e LISpay cominciò ad apparire sul bancone del tabaccaio anche il terminale di Banca 5 che, grosso modo, permetteva di fare le stesse cose degli altri con l’eccezione del gioco (Lotto ed Enalotto).
Fu una mossa molto astuta perché, comprando ad un prezzo poco ragionevole un asset poco attraente per il mercato (a chi interessa la banca dei tabaccai?!), riuscì a garantirsi un entry point per insidiare il duopolio SisalPay/LISpay.
Banca 5 + Sisal = Mooney
Tre anni dopo - nel 2019 - SisalPay continuava a perdere fatturato (soprattutto dopo la perdita delle ricariche Postepay) e Banca 5, pur essendo riuscita a posizionarsi bene sul bancone del tabaccaio, non stava veramente decollando come avrebbe voluto. Fu così che nacque Mooney dall’unione di SisalPay e Banca 5, i cui business di pagamento furono conferiti in una NewCo posseduta al 70% da Sisal e al 30% da Intesa Sanpaolo. Nell’ambito della transazione, Sisal e Intesa Sanpaolo ricevettero ciascuna 500 milioni di euro dalla NewCo che si era indebitata con un bond high yield da 530 milioni. Se volete curiosare fra i dettagli della transazione e sul mercato di riferimento c’è un prospetto molto completo che è stato pubblicato per l’emissione del bond.
A parte il brand orribile, Mooney ha cercato di vendersi fin dalla sua costituzione come una sorta di fintech, sebbene il suo business fosse molto old style prosperando sulla propensione atavica degli italiani a recarsi in tabaccheria per una transazione che può essere fatta comodamente da un’app. Il trend inesorabile verso la digitalizzazione, accelerato ulteriormente dalla pandemia, e il sovraffollamento da parte delle challenger bank hanno penalizzato molto il business di Mooney che, nonostante un continuo arricchimento dell’offerta, non è cresciuto come si sperava rimanendo piatto in tre anni.
Enel Pay (Enel paga molto)
Siamo nel 2022 - altri tre anni dopo - e Enel X compra da CVC il 50% di Mooney con Intesa Sanpaolo che si tiene il suo 30% e compra il 20% restante, così da governare la società pariteticamente con Enel X. Dopo il closing della transazione è previsto che Mooney acquisisca le attività che nel frattempo Enel aveva avviato nei servizi finanziari con Enel X Financial Services (il classico conto corrente basato su una carta di debito con IBAN emesso dall’ennesimo IMEL).
Perché Enel è così interessata ai pagamenti? Perché gran parte dei 30 milioni dei clienti italiani di Enel utilizza per il pagamento delle bollette sistemi poco moderni come il bollettino postale pagato all’ufficio postale o in tabaccheria che fruttano commissioni per Poste Italiane, la Mooney di turno e gli esercenti (il 20% delle bollette di Enel transita per Mooney). Intercettare quelle commissioni e stabilire un contatto diretto con il portafoglio del cliente sarebbe un bel vantaggio per un operatore come Enel. Enel sta cercando forse di fare quello che ha fatto Orange, operatore telefonico francese che nel 2017 acquisì Groupama Banque per trasformarla in Orange Bank e fare upselling con i clienti del servizio telefonico. Attenzione però: Orange Bank dopo 4 anni, nonostante 1,1 milioni di correntisti in Francia e Spagna, ha accumulato 650 milioni di euro di perdite e ora sta cercando di vendere quella business unit. Il CEO di Orange Stéphane Richard ha dichiarato:
We did not set up this project to become a banker, but to measure our capacity for innovation
Chissà se anche Enel X ha semplicemente voglia di misurare le proprie capacità di innovare anche a costo di perdere più di mezzo miliardo di euro (spero di no). Già con l’avvio di Enel X Financial Services ed Enel X Pay, Enel si era mostrata molto interessata al settore dei pagamenti decidendo di andare a mangiare nella torta di Poste Italiane e altri operatori finanziari che spillavano commissioni ai clienti di Enel per il pagamento delle bollette. Vi sembrerà assurdo, ma nel 2020 il 70% dei bollettini (bollettini di ogni tipo, non solo quelli di Enel) venivano ancora processati in ufficio postale! Un altro 10% veniva invece pagato presso reti terze (LISpay/SisalPay/Banca5). Ovviamente Poste Italiane non sta a guardare e nel suo ultimo piano strategico ha dichiarato di voler entrare nel mercato di luce e gas puntando ad avere 1,5 milioni di clienti nel 2024. Non è difficile immaginare che grazie al brand e al contatto fisico con il cliente sia molto più facile per Poste rubare un cliente di Enel, che non per Enel convincere un suo cliente a sostituire una Postepay o un bollettino con Mooney.
Nonostante i buoni propositi e le ambizioni di Enel, però, è evidente come in un settore così competitivo come quello dei pagamenti non sarebbe stato facile per Enel X affermarsi come operatore finanziario senza un’operazione di crescita esterna. Per questo Enel ha ritenuto opportuno unire le forze con Intesa Sanpaolo. Con un Enterprise Value di 1,4 miliardi, Mooney è stata valutata 16 volte l’EBITDA, o 4,2 volte i ricavi. Una valutazione da “fintech” per un business che di tecnologico e innovativo ha ben poco. Anche i profili di crescita sono stagnanti con i pagamenti che si spostano strutturalmente verso l'online dove Mooney non se la cava benissimo. Se Enel non dovesse essere in grado di estrarre sinergie, non sarebbe un buon affare. Complimenti invece a Intesa Sanpaolo che dopo aver pagato per 170 milioni Banca Tabacchi nel 2016 si è ritrovata nel 2021 con il 30% di un asset da 1,4 miliardi, ovvero 415 milioni, dopo aver ricevuto peraltro 500 milioni cash nell’ambito della transizione con SisalPay.
Complimenti anche a CVC che dopo aver venduto tutta SisalPay ricavandone 1,4 miliardi, ha venduto anche il business core di Sisal (il gioco) a Flutter (la società inglese che sta dietro Betfair, Paddy Power, FanDuel, Sky Betting e altri brand del gioco) per 1,9 miliardi a un multiplo di 7 volte l’EBITDA. Complessivamente l’avventura di CVC in Sisal si chiude con una exit di 3,4 miliardi rispetto a un investimento di 1,0 nel 2016. Niente male, anche se per gran parte di quella crescita deve ringraziare la moda del fintech che le ha consentito di vendere a 16 volte l’EBITDA una parte del business che nel 2016 aveva pagato con un multiplo single digit.
Varie ed eventuali
Alla fine il gioiello della corona del sistema bancario italiano - parliamo della mitica Carige - potrebbe andare a BPER che ha ottenuto un’esclusiva dal Fondo Interbancario Tutela Depositi dopo aver migliorato la sua offerta da “meno un miliardo” a “meno mezzo miliardo”. Forse se il Fondo avesse aspettato ancora un po’ sarebbe potuto anche arrivare a zero.
Chissà cosa passa per la testa di Orcel. Dopo aver fatto saltare la trattativa per MPS chiedendo l’impossibile allo Stato, UniCredit si sarebbe candidata per comprare la russa Otkritie salvata dalla banca centrale russa nel 2017. Il mercato non ha gradito l’opportunità di una transazione in Russia in un momento del genere (la Russia potrebbe invadere l’Ucraina da un momento all’altro e subire pesanti sanzioni economiche).
Sequoia e Paradigm investono 1,15 miliardi in Citadel. E vabbè. No: Citadel è il broker più importante della finanza tradizionale (azioni quotate). È probabilmente il male assoluto per chiunque negli ultimi anni è andato a straparlare di DeFi, Crypto, Web3 e compagnia bella. Paradigm è un fondo che investe solo in Crypto e Web3. Sequoia è un notissimo fondo di venture capital che ultimamente sta investendo molto in aziende del settore crypto. Se fossi in Coinbase, FTX Pro, Binance & co. comincerei a preoccuparmi. Ne parliamo nella prossima puntata di Segui i Mangoddi.
Cosa sto ascoltando
Un po’ alternativo per i temi, ma questo video e questa canzone, frutto della collaborazione tra la canadese Allie e la drag queen Violet Chachki, sono un bellissimo inno agli anni ‘80 realizzato con una cura nei dettagli pazzesca.
Anche per questa settimana è tutto. Non ho tempo per rileggere, ma grazie a Daniela Bollini questo non è più un problema.
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