💡#16 La moda del fintech
Eccoci al sedicesimo numero di Segui i Mangoddi. L’edizione di questa settimana arriva con un po’ di ritardo.
Forse ricevere questa newsletter nel weekend anziché al venerdì potrebbe alla fine risultare più comodo, o forse, con la bella stagione e le zone giallo-arancione-rosse alle spalle, vi dimenticherete di leggere questo numero scorrendo distrattamente la vostra inbox mentre affondate i piedi nella sabbia. Chissà. Ad ogni modo l’open rate si mantiene sopra il 50% e questo mi motiva ancora a strappare un po’ di ore al sonno per scrivere.
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Oggi parliamo di fintech, di fintech vere e di fintech finte. Con l’occasione, proverò a ripescare dalla memoria qualche appunto su Ronald Coase che può tornare utile per inquadrare meglio il fenomeno del fintech e per rispondere a una domanda ricorrente di Rebecca a cui non riesco mai a dare una risposta: cos’è un’azienda? Per chiudere, qualche grafico interessante dall’ultima edizione del Financial Stability Review della BCE.
Il Fin giustifica il Tech
A giudicare dal numero di startup che hanno fatto fund raising facendosi belle con l’etichetta fintech, uno potrebbe aspettarsi che il mondo della finanza tradizionale sia stato devastato dalla tecnologia non meno di quanto lo siano state le librerie, il piccolo commercio o il settore media. E invece no. Le banche vivono e lottano con noi (anche se noi lottiamo contro di loro).
La maggior parte delle fintech che si vedono in giro, anche quelle più di successo, hanno semplicemente applicato modelli dell’e-commerce al processo di acquisizione del cliente e alle operazioni di front-end (chiamiamola customer experience che è più bello), ma tutto quello che c’è dietro, il modello di business e la proposizione commerciale restano sostanzialmente molto tradizionali.
Una banca non è una filiale. Una banca è la magia con cui si trasformano passività con scadenze a breve (i conti correnti) in attività con duration più elevata (prestiti). Se togli la filiale, ma lasci immutato tutto quello che c’è dietro, non stai rivoluzionando il mondo della finanza.
N26 è un fintech? Sì, l’app, il modello senza filiali, etc. Ma alla fine è una banca che fa sostanzialmente le stesse cose della BCC di Monopoli (magari in maniera un po’ più efficiente)
Nexi è una fintech? E’ bello dire che stai rivoluzionando il modo in cui paghiamo, ma alla fine il business di Nexi consiste nel fornire ai negozianti dei terminali POS (con tecnologia vecchia 10 anni) per permettere loro di agganciarsi ad una rete di pagamento che è sostanzialmente la stessa da 30 anni (gli schemi Mastercard / Visa / Amex) e prendersi una commissione per il disturbo.
Moneyfarm è una fintech che ha rivoluzionato il settore del risparmio gestito? Bello il customer journey, il modello di consulenza fair, etc, ma alla fine è una gestione patrimoniale come altre che investe in prodotti poco sofisticati (gli ETF) con logiche non troppo dissimili da quelle di altri asset manager (comitati di investimento, etc.).
Square, Venmo, Satispay e le altre app di pagamento (di cui abbiamo parlato molto in questa newsletter) alla fine sono dei conti correnti più user friendly e non c’è dietro un’idea rivoluzionaria in grado di sconvolgere la finanza.
Tutte queste cosiddette fintech, come detto più volte qui, prosperano nell’ambiguità regolatoria in cui operano e nell’abbondanza di funding che permette loro di operare in perdita, contrariamente alle banche tradizionali che devono fare i conti con autorità di vigilanza e azionisti assetati di dividendi.
Marchette
Una delle ultime fintech ad aver avviato il filing per quotarsi è Marqeta, che ambisce ad una valutazione di 10 miliardi di dollari. Marqeta si descrive così :
We are the world’s first modern card issuing platform. Our mission is to be the global standard for modern card issuing, empowering builders to bring the most innovative products to the world.
In pratica hanno realizzato un sistema di API (application program interface) a cui le società si possono agganciare per emettere le proprie carte di pagamento appoggiandosi a una banca emittente (che non è Marqeta però). Marqeta si prende un pezzettino delle issuer fee dovute a chi emette la carta di pagamento ogni volta che viene fatta una transazione con quella carta (la issuing fee è pagata dal merchant, non dal titolare della carta).
Molto fico e promettente. Se vai a leggere il loro form S-1 depositato presso la SEC si scoprono però cose interessanti.
Il 73% dei ricavi di Marqueta sono realizzati con Square (che sta diventando molto popolare negli Stati Uniti grazie alla sua “Cash App”). In pratica la grossa crescita di Marqeta deriva tutta dalla grossa crescita di Square che si appoggia a Marqeta per emettere le carte di pagamento dei propri clienti. Altro aspetto interessante è che tutte le carte emesse tramite Marqueta vengono emesse formalmente da Sutton Bank, una banchetta rurale dell’Ohio che si descrive così:
A progressive, privately held independent, community bank, Sutton Bank has consistently been named one of the top small business and agricultural lenders in the State of Ohio.
In sostanza Marqeta è un tramite tecnologico tra Square e Sutton Bank per la gestione di un processo vecchio come il cucco (l’emissione di una carta di pagamento). E’ così disruptive? No, ma ci puoi costruire un business come ha fatto Marqueta.
Ma perché Square, una società che capitalizza 100 miliardi di dollari, non si fa da sola il suo sistema di emissione carte, magari trattando direttamente con Sutton Bank, e perché proprio ora stanno nascendo tutte queste Fintech?
Cos’è una società?
E’ qui che torna utile Ronald Coase e il suo scritto “The Nature of the firm” (il prof. Pozzi mi perdonerà se ho perso gli appunti di Economia dell’Impresa, il corso in cui mi aveva fatto conoscere Coase). Coase si è chiesto come mai, se i mercati sono così efficienti, tanti beni e servizi si consumano e si producono all’interno di sistemi chiusi come le imprese anziché sul mercato aperto. La verità - spiega Coase - è che trattare sul mercato aperto implica elevati costi di transazione che le aziende invece hanno la possibilità di minimizzare gestendoli all’interno di una struttura organizzata. Una struttura che ha un costo, ma un costo minore evidentemente dei costi di transazione associati all’interazione con il mercato aperto.
Perché esistono le società che producono scarpe? Perché se dovessi fare una scarpa comprando sul mercato aperto la pelle, la manodopera, i designer e dovessi sbattermi per commercializzarle, finirei con lo spendere un sacco di soldi ed energie. Gestire tutto questo all’interno di un’azienda minimizza quei costi di transazione perché ho un reparto acquisti che sa già come muoversi per reperire le materie prime; un reparto vendite che conosce già i grossisti a cui rivolgersi su diversi mercati, etc e soprattutto per tutti cui reparti cooperano all’interno di un sistema di regole. Finché il costo e la complessità di trattare sul mercato aperto è alto, le società occuperanno quegli spazi in cui possono ottimizzare i costi di transazione.
Quindi, per rispondere a Rebecca (mia figlia cinquenne) che mi chiede cos’è una società, per spiegarlo come lo spiegherebbe Coase a un bambino di cinque anni le risponderei che le società sono gruppi di persone che si conoscono e si organizzano meglio per fare rapidamente qualcosa che ognuno da solo impiegherebbe più tempo a fare senza collaborare e conoscersi.
C'os’è una fintech?
Il settore finanziario è sempre stato storicamente molto integrato verticalmente: la filiale, i sistemi, i soldi, i prodotti. Tutto è sempre stato prodotto in-house perché storicamente ogni volta che ci sono di mezzo i soldi, i costi di transazione sono sempre stati alti.
La tecnologia, l'open banking e le API hanno abbassato notevolmente i costi di transazione in ambito finanziario ed è per questo che oggi sono nate tante società come Marqeta che consentono a nuove società finanziarie come Square di operare con dimensioni più piccole ed efficienti. Square non si è fatta il suo sistema di card issuing semplicemente perché trovando chi glielo fornisce a costi così bassi (Marqeta, che infatti perde un sacco di soldi) non vale la pena aggiungere quello strato di complessità. Una banca di 10 anni fa invece avrebbe internalizzato quella fase. Una società come Moneyfarm, come dicevo, non rivoluzionerà il settore dell’asset management, ma offre gli stessi servizi con una dimensione più piccola rispetto a Fideuram, resa possibile dall’abbassamento clamoroso dei costi di transazione sul mercato aperto (ETF che costano poco, acquisizione cliente facile attraverso processi digital). Una banca è invece abituata ad acquisire il cliente in house con una propria rete di promotori e a gestire le masse con propri asset manager perché storicamente quelle parti del processo produttivo non era possibile reperirle sul mercato aperto a costi competitivi.
Quindi, molte società fintech in realtà non stanno facendo vera innovazione sconvolgendo il settore finanziario, ma stanno semplicemente riducendo la dimensione efficiente di molte società che operano in ambito finanziario.
Ce ne sono alcune, rare, che invece senza claim particolarmente rivoluzionari, stanno in realtà rivoluzionando alcuni ingranaggi tipici della finanza. Non parlerò di finanzia decentralizzata o marketplace finanziari, ma di una fintech israeliana chiamata Pagaya che opera in un settore molto noioso come quello del reddito fisso e delle cartolarizzazioni.
Pagaya
Pagaya è una società israeliana che ha sviluppato un motore di intelligenza artificiale per la valutazione di pratiche creditizie. La società offre i propri servizi alle cosiddette marketplace lending platforms (Avant, LendingClub, Upgrade, etc.) che così possono valutare le pratiche di credito al consumo velocemente e con costi bassi. In una marketplace lending platform si fanno incontrare le richieste di chi cerca denaro in prestito con quelle di investitori disposti a prestarlo. In un’ottica “Coasiana” si pensava che queste lending platform avrebbero abbassato così tanto i costi di transazione, da poter rendere del tutto obsoleta una banca facendo incontrare direttamente investitori e soggetti che richiedono credito. In realtà, alla prova dei fatti, il modello non ha mai funzionato bene perché c’erano forti squilibri tra domanda e offerta e perché la valutazione delle pratiche creditizie non era facilmente scalabile. Per questo alla fine quasi tutte le lending platform hanno adottato un modello ibrido in cui si assumevano direttamente parte del rischio creditizio usando il loro bilancio per concedere prestiti, per poi rivenderne una parte a chi voleva investire nella piattaforma. Insomma, non era poi tanto diversa da una banca. In questo contesto il motore di Pagaya si è rivelato molto utile, ma non è tutto…
Ciò che è interessante è che negli ultimi tre anni Pagaya ha cominciato a strutturare delle ABS (asset backed securities, cartolarizzazioni) per l'acquisto di crediti dalle piattaforme stesse a cui offre il motore di scoring creditizio.
Contrariamente alle cartolarizzazioni in cui l'originator impacchetta e l'investitore valuta scartabellando i datatape, l'intelligenza artificiale di Pagaya si seleziona da sola il mix ottimale di crediti analizzandoli a livello di singole posizioni (tanto le conosce già perché li aveva preventivamente approvati in fase di istruttoria), li impacchetta e li compra dall'originator (la marketplace lending platform). Una volta acquistati, Pagaya lascia come servicer l'originator stesso (la marketplace lending platform) e gestisce attivamente le posizioni vendendole progressivamente sul mercato. Trattandosi di una cartolarizzazione, Pagaya non assume rischio di bilancio perché le obbligazioni vengono acquistate da investitori istituzionali.
Vi suona simile alle obbligazioni tossiche dei subprime? Sì… Ma in questo caso c’è un’intelligenza artificiale che si occupa di tutto e non sono le banche che impacchettano asset tossici.
Non so valutare quanto funzioni bene il motore di intelligenza artificiale di Pagaya, ma a giudicare dal successo riscontrato dal suo programma di cartolarizzazione chiamato PAID (Pagaya Artificial Intelligence Debt), direi che gli investitori sono molto soddisfatti con oltre 2 miliardi di investimenti nelle emissioni PAID tra 2019 e 2021. E si capisce anche il perché. Duration media di 1,5 anni, rating investment grade (BBB) e cedole del 3%.
Dopo soli 4 anni, si parla già di una valutazione di 10 miliardi per Pagaya che potrebbe quotarsi o fondersi con una SPAC. Per il momento, limitandosi al credito al consumo, la sua attività non è stata particolarmente disruptive per il settore finanziario ma si parla già di un possibile ingresso nel settore mutui.
Immaginate un mondo in cui un’Intelligenza Artificiale approva in un secondo la vostra pratica di mutuo e la impacchetta in un secondo in una ABS pronta per essere venduta a investitori in cerca di ritorni interessanti.
Potrebbe essere un sogno o un incubo, ma sarebbe sicuramente una fintech davvero disruptive in grado di dare del filo da torcere alle banche in uno dei settori più grandi e redditizi in cui operano.
Financial Stability Review
La settimana scorsa è uscita una nuova edizione del Financial Stability Review della BCE. Ci si trovano spunti molto interessanti per capire a che punto siamo e come ne usciremo. Eccone alcuni.
1) L’impatto della crisi COVID-19 sulle procedure di insolvenza sarà molto particolare con una diminuzione nei primi 18 mesi e poi un aumento costante negli anni successivi. E’ molto diverso rispetto ad altre crisi in cui si è assistito ad un aumento delle procedure di insolvenza nei primi anni e poi a una progressiva diminuzione. In altre parole, da un punto vi vista creditizio, anche se il contesto sta migliorando, il peggio deve ancora venire
2) Quello qui sotto è forse uno dei grafici più importanti. Mostra una correlazione abbastanza forte fra contrazione del PIL e Expected Default Frequency (una misura della probabilità di default). Il puntino giallo è totalmente fuori dalla regressione lineare e non è detto ci ritorni (le perdite ormai sono state assorbite dagli stati). A destra una matrice che mette in relazione la perdite in NPV nel caso di insolvenza e le insolvenze attese dove 100 è il livello del 2019. L’Italia è maglia nera per perdita di NPV (probabilmente a causa delle lungaggini dei tribunali), mentre si trova bene rispetto a un numero di insolvenza nel 2021 che dovrebbe essere del 12% più basso rispetto al 2019 (ovviamente c’è l’effetto moratorie e chiusura dei tribunali).
3) Gran parte della ripresa dipenderà dalla capacità di sfruttare, sfruttare bene, il Next Generation Europe, o Recovery Fund, come lo chiamiamo qui (anzi, recovery faund). Da questo punto di vista l’Italia è messa particolarmente male, mentre la Grecia è ben posizionata come rapporto fra totale fondi messi a disposizione e capacità di assorbimento. Sarà per questo che la ormai da diverse settimane il rendimenti dei nostri BTP devono pagare 10bps in più rispetto alle obbligazioni greche?
Cosa sto ascoltando
Non so perché, ma sono finito a riascoltare Born To Die di Lana Del Ray. E’ una forma di pop nostalgico finto-sofisticato che si ascolta molto volentieri. Nell’album c’è poi National Anthem, un brano sui soldi con un video e un testo che sono tutto un programma, perfetti per il tema di questa newsletter:
Anche per questa settimana è tutto. Se ti è piaciuta questa newsletter puoi cliccare sul cuoricino, condividerla sui social network o magari girarla ad amici e colleghi.
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