🎨 Chi offre di più? 69 miioni e... 🔨
E’ arrivata anche a voi la notizia di questo collage composto da cinquemila immagini digitali dell’artista Beeple battuto all’asta da Christie’s per 69 milioni di dollari? Non un quadro. Non un poster. Ma una specie di JPEG con un certificato digitale che viaggia sulla blockchain e che ne garantisce l’autenticità come pezzo unico, dando alcuni vaghi diritti all’acquirente di mostrare l’immagine. Un non-fungible-token, se volete far finta di capirci qualcosa. La settimana scorsa avevo letto di questo fenomeno dei “Non-fungible tokens” ne La lettera di [mini]marketing in cui se ne parlava in modo scherzoso come “Figurine Bitcoin” o come quella moda degli anni ‘90 in cui potevi comprare un certificato per dare un nome a una stella. Anche a me è sembrata una di quelle follie passeggere alimentata da buzz internettiano e abbondande liquidità, ma qui pariamo di Christie’s. Parliamo di 69 milioni di dollari per una singola transazione. E allora bisogna fermarsi a pensarci. La reazione condivisibile di Beeple (l’autore della JPEG) è stata questa:
A pensarci bene, perché dovremmo rispettare di più il dipartimento della cultura di Abu Dhabi che compra il Salvator Mundi per 450 milioni di dollari, rispetto a chi compra l’opera di Beeple per 69 milioni di dollari? In fondo l’autenticità di quella JPEG certificata è molto meno controversa di quella del Salvator Mundi e non c’è rischio che l’opera d'arte deperisca o vada rubata. Voi direte che chiunque - anche io su questa newsletter - può copiarsi quella immagine digitale e mettersela come sfondo sul telefono. Tuttavia, solo quella è l’immagine originale ed è pieno di wallpaper della Gioconda, senza che l’originale custodito al Louvre perda valore. Sono sempre stato scettico e critico su Bitcoin e finanza decentralizzata, ma credo che un uso del genere della blockchain - la certificazione e il trasferimento di opere d’arte uniche - possa avere molto più senso rispetto al progetto cyberpunk della valuta corsara per combattere il sistema delle banche cattive. Se poi non comprendete chi spende soldi per l’arte, questo è un altro discorso…
La butto lì. Secondo me potrebbe esssere l’inizio di un nuovo Rinascimento digitale…
Fintech
Come è finita poi con Greensill? Male, come era evidente. Ma anche peggio di quanto si pensasse, perché si stanno scoperchiando due vasi di pandora: le Fintech e i depositi utilizzati dalle Fintech.
1) Quando Apollo ha approcciato Greensill per comprarne i pezzi buoni per 60 milioni di dollari, ovvero la tecnologia da Fintech di cui si vantava (“fully integrated technology and funding solutions” e “proprietary invoicing platform underpinned by AI”) e la relazioni con i clienti buoni, il fondo americano si è accorto che in realtà sotto gli slogan di Greensill non c’era niente. Tutta l’infrastruttura tecnologica di Greensill era offerta da una società meno fighetta ma più concreta chiamata Taulia che aveva già reindirizzato i clienti solvibili di Greensill verso JPmorgan.
Non solo il modello di business di Greensill era finanziariamente tossico, ma la società che si definiva “Fintech” era in realtà una scatola vuota.
Forse termini come Fintech, Big Data e Intelligenza Artificiale sono ormai decisamente abusati e bisogna pestare attenzione. Il problema è che con questi termini le valutazioni di tante società vengono moltiplicate per dieci senza che nessuno riesca a fare la minima di due diligence o fact checking su quello che le società vantano nei propri prospetti. Secondo Dealroom in Europa ci sono oltre 800 Fintech che inseriscono termini come “AI, machine learning, deep learning and computer vision” nella descrizione della loro attività. Queste società hanno raccolto complessivamente 4 miliardi di euro di capitale di rischio.
Ho paura che fintato che gli avvocati incaricati di verificare i prospetti informativi utilizzati da queste società per fare fund raising non capiranno la differenza tra AI e IoT, dovremo sempre mettere mano alla fondina (e non al portafoglio) ogni volta che leggeremo termini come Fintech, Intelligenza Artificiale, etc. C’è un motivo se esistono fondi di venture capital specializzati in questi settori che si fanno pagare commissioni di gestione e carried interest belli rotondi (servono competenza specifiche per non perdere soldi). C’è un motivo se il managing director del Vision Fund, uno che faceva il trader in Deutsche Bank e che di machine learning ne capisce quanto me di reti neurali (poco, eh!), ha preso due fregature colossali come Greensill e Wirecard (ah sì, anche WeWork).
Se Vision Fund ha valutato Greensill 3,5 miliardi di euro sulla base di un PowerPoint con i termini fighi nelle chart giuste, il prezzo della JPEG certificata di Beeple venduta per 69 milioni di dollari non sembra poi così caro (il 2% di quei 3,5 miliardi). Forse il fondo sovrano dell’Arabia Saudita avrebbe fatto meglio ad investire i 45 miliardi di dollari messi nel Vision Fund in arte digitale.
Rapa in banca
2) Vi ricorderete che Greensill, per operare sulla raccolta dei depositi e finanziarsi, aveva comprato una piccola banca regionale tedesca, arrivando ad avere depositi per 3 miliardi di euro. Quella banca è ora fallita e i correntisti saranno rimborsati dal fondo di tutela e garanzie dei depositi tedesco (fino a 250.000 euro ciascuno, mi pare). I tedeschi, che si sono sempre opposti a uno schema di garanzia unico europeo per paura di dover far fronte al fallimento di qualche banca italiana o greca, ora si ritrovano un bubbone in casa delle dimensioni di Banca Etruria. Le banche tedesche che contribuiscono allo schema di garanzia non l’hanno presa bene e se la sono presa con Raisin invitando tutte le banche tedesche a non trattare più con quel soggetto.
Raisin è una fintech tedesca (ah, una FINTECH!) che raccoglie depositi da privati e li reindirizza verso banche che offrono in questo o quel momento le migliori condizioni. Vi ricordate il Conto Arancio che per 6 mesi offriva il 3% sui depositi? O CheBanca!? Illimity? O altro? Raisin evita (i) a voi lo sbatti di cambiare ogni volta conto spostando i fondi sulla banche che in quel momento offrono i migliori tassi, (ii) a banche sconosciute lo sbatti di fare pubblicità per fare raccolta.
Vedete due nomi familiari tra le banche partner di Raisin?
Le banche tedesche pensano che Raisin (e le sue banche partner) facciano free riding sullo schema di tutela dei depositi. E una qualche ragione ce l’hanno… N26 usa lo schema tedesco per raccogliere depositi in tutta Europa con un modello commerciale piuttosto aggressivo. Revolut usa la sua licenza in Lituania. Klarna, con una licenza svedese, raccoglie depositi un tutta Europe per fare credito al consumo senza interessi in tutto il mondo. E se il prossimo crack bancario venisse da questi arbitraggi tra i diversi schemi di tutela? Io mi affretterei a creare un’unione bancaria vera, tanto più che ora i tedeschi dovrebbero essere meno schizzinosi.
Proprio oggi in un tweet il Single Resolution Board europeo chiede in un tweet consigli sulla guidance da usare per la concessione di licenze bancarie:
Il mio consiglio è prestare molta attenzione a chi scrive Machine Learning e AI nei prospetti e soprattutto non autorizzare i broker di depositi come Raisin.
Coinbase
Ci siamo quasi. Coinbase potrebbe quotarsi a breve. Sarebbe l’IPO più grossa dai tempi di Facebook, con una valutazione di oltre 100 miliardi di dollari. Che fa Coinbase? Se volete comprare dei Bitcoin o altre criptovalute, Coinbase è uno dei posti in cui andare. Chiamiamola la banca dei Bitcoin. Inutile dire che tra la mission di Coinbase c’è la democratizzazione della finanza, etc. etc.
Alcune cose che si colgono al volo dal prospetto. Io purtroppo non ho avuto ancora tempo di leggerlo e anche il tempo per scrivere scarseggia…
Coinbase ha 43 milioni di utenti, di cui il 6% attivo su base mensile (pensavo di più sinceramente). Ha realizzato nel 2020 un miliardo di dollari di ricavi di cui i 96% proveniente da transaction fees e 300 milioni di utile netto, con una crescita impressionante. La crescita ovviamente va di pari passo con l’aumento del valore del Bitcoin. Considerando 90 miliardi di transato, dai ricavi di Coinbase si evince che la società si prende l’1,1% di ogni transazione (molto più dai clienti retail, di meno dagli istituzionali). Considerando che comprare azioni può costare da zero allo 0,19%, direi che non è niente male per chi vuole democratizzare la finanza.
Non l’avrei mai detto, ma ormai la maggior parte dei volumi di Coinbase sono realizzati con investitori istituzionali (57 miliardi di dollari su quasi 90 miliardi). Non si tratta solo di sbarbati con felpa e cappuccio che investono la paghetta in Bitcoin.
Dalla sezione rischi emerge chiaramente l’interconnessione tra Coinbase e il sistema bancario. I costi di processing delle carte di credito sono segnalati come rischio per la redditività di Coinbase e la possibilità di operare con il sistema bancario statunitense è presupposto imprescindibile per l’operatività di Coinbase. Ma forse il fattore di rischio più peculiare è questo:
“the identification of Satoshi Nakamoto, the pseudonymous person or persons who developed Bitcoin, or the transfer of Satoshi’s Bitcoins”
Coinbase ritiene che la scoperta della vera identità di Satoshi Nakamoto possa provocare un crollo dei Bitcoin. Sarà per questo che Coinbase si è sincerata di mandare una copia del prospetto a Satoshi Nakamoto stesso:
Quella stringa sotto il nome di Satoshi è l’indirizzo del primo block reward contenente 68 Bitcoin (3,4 milioni di dollari). In realtà si dice che Satoshi abbiamo messo da parte un wallet da 1,1 miliardi di Bitcoin (50 miliardi di dollari!).
Cosa sto leggendo
Dopo aver parlato di Klarna e del buy now, pay later, mi sembrava giusto leggere Cose Peziose di Stephen King (che penso mi terrà occupato per i prossimi 4 numeri della newsletter).
Cosa sto ascoltando
Faccio outing: mi piacciono i Coma Cose anche se non sopporto le “e” aperte di Fausto Zanardelli. Dopo aver ascoltato la playlist di Sanremo su Spotify senza aver visto neanche un frame del Festival su Raiuno, la canzone che mi si è appiccicata subito in testa è Fiamme negli occhi
So che non era dai tempi di Paola e Chiara che non si vedevano due cantanti guardarsi negli occhi in quella maniera dolce, al limite dell’osceno, ma in fondo stiamo parlando di Sanremo e delle canzonette, non di Burning Man. E dopo averli visti su Youtube capisco anche perché siano arrivati ventesimi (diciamo che non avevano scampo contro le tutine nude look dei Maneskin e gente che sapeva minimamente stare sul palco). Le chitarre à la Velvet Underground danno un tono serio alla canzone altrimenti orecchiabile e la frase “Resta qui / E bruciami piano / come il basilico al sole / sopra un balcolne italiano” è talmente insensata e icastica da distogliere l’attenzione da tutto quel romanticismo melenso e un po’ di maniera (ricorda il “se la pioggia fosse transitiva / io ti temporalo” di Post Concerto). Su Spotify sono sesti almeno…
Buon weekend! Siamo quasi a 400 subscriber. E’ un numero scritto un po’ all’ultimo, ma non volevo mancare l’appuntamento (perdonate typo e approfondimento superficiale).