📺 #15 Fondi e spandi effendi
E’ venerdì e siamo arrivati al quindicesimo numero di Segui i mangoddi, la newsletter terra terra sulla finanza alta alta.
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Se ti appassiona il mondo dei media, questo numero è per te.
La settimana si è aperta con AT&T che ha gettato la spugna sulla velleitaria integrazione tra telecomunicazioni e media. L’operatore telefonico ha fatto un accordo per scorporare WarnerMedia e fonderla con Discovery (Warner Media, già Time Warner, era stata acquista a caro prezzo solo tre anni fa).
Acquista, fondi, scorpora, vendi… Dai la cera, togli la cera.
AT&T è solo l’ennesimo operatore di telefonia pentito sulla via del “Triple play” o del “Quadruple play”, una strategia una volta alla moda con cui si indicava la convergenza tra media e telecomunicazioni invecchiata non meglio di Valeria Marini quando ammiccava “Videochiamami” nella pubblicità H3G di vent’anni fa.
Anche Verizon poche settimane fa è uscita dall’avventura nei media vendendo Yahoo e Aol ad Apollo per 5 miliardi di dollari (la metà di quanto le aveva pagate).
La necessità di fare ingenti investimenti per il 5G deve aver portato AT&T e Verizon a confrontarsi meglio con la realtà ammettendo che un operatore di telecomunicazione, tutto sommato, non aggiunge alcun valore ad aziende media. D’altronde quando dico “Netflix” i miei figli mi fanno il verso “Ta-Duuuum”, mentre probabilmente non hanno mai sentito parlare di Fastweb (che pure è altrettanto importante permettendo a Netflix di raggiungere la nostra abitazione). Probabilmente AT&T aveva scommesso in qualche modo sulla fine della Net Neutrality, ma alla fine così non è stato: gli operatori telefonici restano semplici “dumb pipes” e quello che conta, quello che ha valore, è ciò che fai passare nei tubi.
E’ incredibile la quantità di valore distrutto e di commissioni generate da attività di M&A sui media negli ultimi trent’anni.
Anche in Italia, gli antichi sogni di convergenza tra Mediaset e TIM sono sono svaniti all’alba della pace tra Vivendi e Fininvest, con la prima che uscirà progressivamente dal capitale di Mediaset rinunciando allo sconsiderato progetto di integrazione fra TIM, Mediaset e le altre attività media di Vivendi. Bolloré dovrebbe essere grato a Berlusconi per avergli messo i bastoni fra le ruote e avergli risparmiato le costose transazioni e i dolorosi ripensamenti avuti da AT&T. Chissà che ne sarà invece di Tim Vision.
L’ultimo moicano del “Triple Play” rimane Comcast che insieme alla connettività a banda larga possiede NBC Universal e Sky. Probabilmente gli azionisti di Comcast chiederanno al loro management di considerare con onestà intellettuale un ripensamento simile a quello di AT&T e Verizon.
Warner Discovery
Ma com’è strutturata la transazione? E’ davvero una fusione? E’ una vendita? Chi compra cosa?
1) WarnerMedia viene di fatto staccata da AT&T e messa in una NewCo assieme a Discovery che conferirà a sua volta nella NewCo tutte le proprie attività. E’ una transazione chiamata Reverse Morris Trust transaction (dal nome della prima transazione negli Stati Uniti ad aver ottenuto benefici fiscali da questo tipo di struttura).
2) Gli azionisti di AT&T riceveranno il 71% della NewCo e gli azionisti di Discovery il 29%.
3) Alla fine della fiera, AT&T non possiederà più Warner Media, che sarà una società a se stante, mentre Discovery verrà fusa in WarnerMedia, con il CEO di Discovery che guiderà la nuova società.
4) Dal momento che AT&T ha un azionariato molto polverizzato, con nessun azionista rilevante, l’operazione è di fatto una sorta di vendita di WarnerMedia a Discovery.
5) Prima della transazione, WarnerMedia si indebiterà per 43 miliardi dollari con un pool di banche al fine di poter distribuire ad AT&T 43 miliardi di dollari sotto forma di dividendo e/o accollo di debiti.
6) Considerando che Discovery capitalizza attualmente 16 miliardi di dollari, una quota del 29% per gli azionisti di Discovery nella NewCo implica una valutazione complessiva dell’entità risultante dalla fusione di 50 miliardi di dollari (16/0,29=56) e quindi di 40 miliardi di dollari per la sola WarnerMedia (56-16).
7) AT&T aveva pagato 83 miliardi per WarnerMedia tre anni fa. Può quindi dire di esserne uscita pari e patta, incassando 43 miliardi di dollari cash e distribuendo ai suoi azionisti il 71% di una società che vale 56 miliardi, ovvero 40 miliardi. Gli azionisti di AT&T potranno quindi decidere autonomamente se continuare l’avventura nei media con una società che sarà posizionata molto meglio da un punto di vista strategico o se vendere quelle azioni e farla finita con i media.
Ha più senso per WarnerMedia mettersi dentro Discovery anziché dentro AT&T? Sicuramente sì.
WarnerMedia ha un catalogo invidiabile e una delle migliori case di produzioni di serie tv (HBO). WarnerMedia non è mai stata valorizzata in modo appropriato da AT&T perché il suo azionista aveva bisogno di cassa e ainziché investire nel Direct To Consumer, ha estratto cassa dalla società con deal che non avevano senso da un punto di vista strategico. Ad esempio tutti i contenuti di HBO sono stati dati in esclusiva a SKY in Europa fino al 2025 e gran parte del catalogo di Warner Bros è stato dato a Netflix. Questo ha permesso ad AT&T di incassare delle fee da licensing importanti senza investire in costose operazioni di costituzione di una piattaforma proprietaria, ma il risultato finale è che ora Netflix, anche grazie ai contenuti di Warner, ha potuto conquistare la maggior parte dei telespettatori in streaming di cui conosce a menadito le abitudini di consumo. Questo vuol dire che Netflix oggi può permettersi di produrre serie costose potendone spalmare il costo su una platea molto più ampia affrancandosi progressivamente dai contenuti di Warner e aumentando i propri margini.
Discovery ha avuto enormi meriti per essersi tenuta fuori dalla costosa zuffa per serie tv e film esclusivi producendo contenuti alternativi chiamati “unscripted shows” (termine che racchiude qualsiasi cosa non abbia un copione: reality, situation commedy, sports, etc). E’ una strategica che ha pagato posizionando molto bene Discovery in termini di profittabilità e sostenibilità finanziaria.
C’è da capire adesso cosa riuscirà a fare Discovery con un catalogo pazzesco come quello di HBO/Warner e se ne sarà all’altezza: parliamo di Game of Thrones, i Sopranos, Succession, Friends, Harry Potter, Matrix…
Discovery partirà da una base di 44 milioni di abbonati ad HBO+ negli Stati Uniti e 15 milioni di abbonati a Discovery+ a livello global. Dovranno risolvere il problema dell’esclusiva sui contenuti HBO data a Sky e poi forse potranno colmare il ritardo accumulato verso Netflix che è a quota 208 milioni di abbonati e verso Disney+ che è arrivata a 104 milioni abbonati.
Chiedete a Topolino
Il problema è che passare da un modello distributivo (produco contenuti da vendere a distributori come tv via cavo o altre piattaforme) a un modello direct to consumer (mi faccio la mia piattaforma) non è banale. Chiedete a Disney, che pure fino a ieri veniva indicata come storia di successo. Nel marzo 2020 Disney ha lanciato con un timing perfetto (inizio della pandemia e scuole chiuse) il suo servizio Disney+ a un prezzo molto competitivo. A novembre 2020 aveva già raggiunto 100 milioni di abbonati forte di un brand potente e un pricing molto aggressivo. Il mercato, nonostante risultati finanziari in piena emorragia (Disney produce molti dei suoi flussi di cassa grazie ai parchi a tema), ha premiato Disney portando l’azione a livelli record di 200$, il 40% sopra i livelli pre-pandemia.
Con la pubblicazione dell’ultima trimestrale, però, Disney ha comunicato di aver aggiunto meno abbonati di quelli che si aspettava il mercato. E’ arrivata a 103 milioni con una crescita di 33 milioni nel primo trimestre, leggermente sotto le attese e con una crescita più bassa rispetto al trimestre precedente. Il calo è fisiologico dopo la straordinaria crescita alimentata dai lockdown e anche Netflix ha subito la stessa battuta d’arresto, ma a differenza di Netflix, l’ARPU di Disney+ (prezzo medio pagato dagli utenti) che già era un un terzo rispetto a quello di Netflix (5 dollari vs 15 dollari) è crollato a 4$ e questo nonostante un aumento dei listini negli Stati Uniti e in Europa.
Disney+ ha probabilmente raggiunto un punto di picco in cui può aumentare la sua quota di mercato solo abbassando prezzi che sono già un terzo di quelli dei suoi principali competitor. La cosa è abbastanza catastrofica per una società che puntava ad arrivare a 200 milioni di abbonati e che non è proprio in ottima forma finanziaria. Se poi consideriamo che i multipli a cui quotano le azioni erano già altissimi e dopati da aspettative da “tech company”, il calo del 15% che ha subito il titolo dal picco dei 200$ è ancora poca cosa rispetto al difficile anno che dovrà affrontare Disney.
Sullo sfondo, poi, si muove sempre Amazon che con 85 miliardi di dollari di cassa in bilancio e un cash flow di 25 miliardi l’anno può permettersi di comprarsi la nuova WarnerDiscovery senza problemi e metterla dentro Prime Video. Amazon ha l’enorme vantaggio di poter contare su una platea globale di oltre 120 milioni di abbonati a cui rifilare la propria piattaforma video senza alcuno sforzo, gratis, includendola nella subscription per le consegne gratuite. Prime Video si è arricchito di contenuti prevalentemente provenienti da terzi, ma con il passare del tempo, con i vari studios che proveranno a farsi le loro piattaforme, ci saranno sempre meno contenuti disponibili e Amazon dovrà produrne di propri.
E infatti Amazon sta lavorando a un’offerta per MGM.
I media stanno diventano un business globale di scala dove ci sarà spazio solo per colossi o piccoli produttori. Chi sta nel mezzo è destinato a essere inghiottito…
E cosa ne sarà delle vecchie e care media company locali? Che ne sarà dei canali televisivi e di quella che ora viene definita in modo dispregiativo “tv lineare”? Quello che sta succedendo in Francia ci offre qualche spunto per capirlo…
Allons enfants de la Patrie
Nella stessa settimana della transazione tra Warner Media e Discovery, i canali francesi TF1 e M6 hanno annunciato di volersi fondere. Io sono particolarmente affezionato a quei due canali televisivi su cui ho imparato il francese, ma per tutti gli altri possono comunque fornire un buon indizio di come le società media tradizionali si stiano asserragliando nei propri mercati per resistere all’offensiva dei grandi.
La presentazione della fusione è ricca di spunti interessanti. Ve ne riporto alcuni
1) M6 e TF1 controlleranno insieme il 70% del mercato pubblicitario televisivo, per cui qualche grattacapo verrà sicuramente alle autorità antitrust. Le agenzie media che comprano spazi pubblicitari si stanno già lamentando. La presentazione della fusione, però, cerca di allargare il punto di vista mostrando come il digital e i cosiddetti OTT (Netflix & co.) abbiano ormai reso irrilevante il mercato televisivo. Insomma, bisogna diventare grandi. Il problema è che due media company con contenuti e strategie obsolete, non diventeranno Netflix semplicemente perché si mettono insieme. E cercare di toccare le corde del patriottismo francese (il campione nazionale per la salvaguardia dei contenuti in lingua francese) è un po’ ridicolo se si pensa che Netflix è riuscita in pochi anni ad esportare nel mondo serie di successo in lingua francese come Lupin, 10% (consigliata qualche settimana fa su questa newsletter) ed Emily in Paris. In 30 anni TF1 è riuscita ad esportare al massimo prodotti ridicoli come Premiers Baisers ed Helène et les garçons (che vi confesso di aver guardato quando ero piccolo perché avevo un debole per la frangetta di Helène Rolles).
2) TF1 e M6 costruiranno insieme il campione dello streaming. Se vabbè. Come giustamente sottolineato nella parte destra della slide, per le piattaforme in streaming ci vuole “scala”. Le dimensioni contano. Puoi essere grande quanto ti pare in Francia, ma sarai sempre più piccolo della più scarsa piattaforma con scala globale.
3) Il gruppo risultante dalla fusione sarà il terzo gruppo televisivo in Europa dopo RTL e Pro Sieben (Canal+ non c’entra niente in quel grafico essendo una pay tv). Da notare quanto piccola sia diventata Mediaset nonostante la presenza in due mercati. Sempre strizzando l’occhio alle autorità antitrust che esamineranno la fusione, TF1 e M6 indicano anche i fatturati di Apple, Alphabet, Facebook, Disney e Netflix (che non si capisce cosa ci facciano in questo grafico).
4) Come in ogni fusione che si rispetti, non può mancare la slide sulle sinergie, che è sempre un divertente libro dei sogni. Il nuovo gruppo realizzerà più ricavi vendendo contenuti a terze parti (come se prima non lo facessero), sviluppando nuove offerte digitali (in realtà ci saranno dissinergie dalla cannibalizzazione di una delle due piattaforme) e, udite udite: Sales of B2B technology!
Siccome è una fusione francese ci saranno anche sinergie di costo ma attenzione ai sindacati: saranno tutte “mainly non-HR”.
5) La transazione è strutturata come una fusione tra M6 e TF1 in cui gli azionisti di M6 riceveranno 300 milioni di dividendi prima fusione e l’azionista di controllo di TF1 riacquisterà da RTL (azionista di controllo di M6) l’11% della società fusa per 641 milioni, salendo al 30%. In pratica è RTL che sta vendendo M6 a TF1.
L’andamento di M6 rispetto ad altre società televisive la dice lunga sul perché M6 fosse uno degli asset più ambiti in Europa e il motivo per cui sarà il suo CEO a guidare il gruppo TF1-M6 dopo la fusione
Gli azionisti di M6 riceveranno inoltre azioni della M6 Edition che continuerà a detenere la licenza televisiva di trasmissione in Francia e diventerà una sorta di infrastructure company che incasserà ogni anno le fee di un contratto di servizio con la nuova entità fusa. Un modo ingegnoso ed elegante per alzare il prezzo di M6 nell’ambito della fusione.
La prossima mossa adesso sta a Mediaset, ora che si è liberata dal giogo di Vivendi, ma temo che questa ondata di M&A tra canali televisivi sia solo il canto del cigno della tv lineare. Almeno Mediaset non ambisce a far la guerra a Netflix né a posizionarsi come “tech” company come i francesi.
Cosa sto vedendo
Abbiamo parlato di HBO, per cui non posso che consigliare due serie di HBO sui soldi.
La prima è Succession, di cui attendo in maniera spasmodica la terza stagione. E’ una sorta di Games of Thrones dei media. Giochi di potere, follie e drammi di una ricchissima famiglia a capo di un declinante impero dei media che abbraccia giornali, canali televisivi, parchi a tema e crociere. I personaggi sono caricaturali e drammatici, tanto che non si distingue bene il confine tra satira e verismo. E’ una serie sui soldi, sui media, sul potere e su come questi tre ingredienti possono combinarsi in diversi modo per animare la vita di persone semplici che si sentono grandi.
Creata da Jesse Armstrong e prodotta da Adam McKay Premio Oscar per la sceneggiatura de La Grande Scommessa, eredita da quest’ultimo la passione per i dietro le quinte delle grandi operazioni finanziarie che vengono descritte con dettagli tecnici precisi e verosimili
La prima stagione è un po’ ondivaga con una sceneggiatura in cerca di un genere definito, ma la seconda stagione è un capolavoro in cui si descrive il dramma di personaggi che abbandonano ogni morale, divisi tra la pulsione verso i soldi e repulsione nei confronti del padre-capofamiglia-capoazienda che detestano, ma di cui cercano sempre l’approvazione.
Altro piccola gemma di HBO sulla finanza è Industry. Più frivola e leggera, con qualche sbavatura sulla sceneggiatura, ma molto rigorosa e realistica nel descrivere le vite di cinque stagaire di una banca d’affari che cercano di farsi spazio nella finanza londinese. La serie descrive un’intersezione interessante fra Generazione Z e finanza che potrebbe fornire una chiave di lettura originale dell’attuale esuberanza sui mercati finanziari.
Queste serie di HBO le trovate su Sky dal momento che AT&T non ha avuto tempo e denaro per sviluppare una piattaforma Direct to consumer in Europa.
Per questa settimana è tutto. Come al solito, se ti è piaciuta questa newsletter puoi cliccare sul cuoricino, condividerla sui social network o magari girarla ad amici e colleghi.
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